12 Agosto 2017, 07:24
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Eravamo ventitré, lo ricordo perfettamente. Ventitré bambini con gli occhietti sgranati e le orecchie ritte ad ascoltare. La quarta elementare aveva quattro finestre di cui due guardavano la catena montuosa degli iblei e le altre due si aprivano davanti alla chiesa di San Vincenzo Ferreri, trionfo di rara bellezza barocca. La maestra spiegava la geografia (sarà questo il motivo per cui ancora oggi stento a distinguere il Giappone dalla Cina) e quando arrivò in Lombardia disse “E adesso bambini ascoltate bene: il capoluogo di regione della Lombardia è Milano, quando finirete di studiare a 18 anni se vorrete avere lavoro e tanto successo dovrete andare lì”.
Ecco come nasce un mito, una leggenda o forse meglio dire una bugia. Milano assurgeva nella generazione dei nati fra il 70 e 90 ad una moderna città dei balocchi dove per balocco non si intende più il gioco, la perdizione (viva Dio) o la distrazione dagli impegni bensì il successo. Spasmodica e conturbante ricerca del successo. Milano, la capitale della moda, è anche la capitale dell’economia, dell’efficienza, del “lavoro guadagno, spendo pretendo” dei treni ad alta velocità, delle metropolitane che corrono sotto terra veloci come talpe scatenate. È la città dell’happy hour, dello street food, dei tram, della fretta, delle bottigliette d’acqua a destra e della Luis Vitton a sinistra. È la città che non dorme, che offre tanto e costa ancor di più.
Ma soprattutto è la città delle grandi Università. Vai, studi, ti laurei, lavori, guadagni, ti sposi, fai figli che a loro volta seguiranno lo stesso andamento che, seppur frenetico, rimane sempre lento. Eppure, o le maestre condizionavano meglio le scelte di quanto non facciano oggi, o la moda della fuga aveva preso anche i genitori, fatto sta che molti, moltissimi, troppi dei miei compagni all’inesorabile scadere della maturità fecero un biglietto, per lo più di sola andata, e portarono un pezzo consistente di Sicilia al nord.
Nessuno mai disse loro: “Restate, c’è tanto da fare, tanto da investire ma soprattutto tantissimo su cui sperare”. Per lo più i “milanesi” in pectore tornavano a Natale, Pasqua no perché piuttosto di gongolare alla sola idea delle impanate andavano a sciare e poi in estate, stanchissimi e molto infastiditi dalla lentezza dei siciliani.
Già al primo Natale facevano precedere l’articolo determinativo al nome proprio di persona. Pazienza: rarissime cose risultano insolenti e intollerabili ai siciliani come “la Costanza, il Marco, la Gianna, il Giuseppe”. Il secondo Natale andava meglio, l’articolo era sparito ma aveva lasciato un po’ di spazio all’accento e ai verbi tronchi “andiam, facciam, corriam”. Il terzo Natale era il migliore. Intanto includeva la promessa del “ci vediamo a Pasqua” e poi si riaccennavano tonalità sicule, certo un po’ violentate dalle vocali chiuse, ma pur sempre riemergenti.
La generazione che è partita e, purtroppo come nella peggiore campagna di Russia non è mai ritornata, è la generazione a cui è stato negato l’orgoglio della propria terra ed è rimasto solo il pregiudizio. È una generazione che ha perso la cultura della propria lingua e quindi, inevitabilmente, le radici della propria storia. Io, per indolenza o forse per eccessivo slancio di cuore nei confronti del mio mondo, ho disertato l’invito all’esodo e sono rimasta ad aspettare ciò che adesso, con sapiente saccenza e discreta ironia comincio, lentamente, a vedere.
E vedo che la crisi, come tutte le crisi, ha sviluppato un grandissimo senso di capacità manageriale. E vedo anche che in molti ritornano, finalmente, per investire. Molto spesso allo stipendio fisso da ripartire in toto tra affitto, cibo e mezzi di trasporto, preferiscono l’azzardo dell’avventura imprenditoriale. Si inventano e reinventano. I migliori sfondano, gli altri tirano a campare ma almeno qui ci riescono. E poi si ristorano guardando un cielo terso macchiato di pietre dorate che svettano sui campanili gialli, o tuffandosi nella pausa pranzo (che spesso vivevano sulla panchina di un tram) in un mare cristallino a pochi minuti da qualunque lavoro.
Ritornano come dopo una diaspora nel suolo paterno perché mossi, chissà, da un rimorso ancestrale; o forse da un richiamo lontano e potente che li artiglia per la gola. E non si muovono da soli, no. I siciliani coinvolgono e incantano. Raccontano della Sicilia come di una terra misteriosa e segreta, nei loro occhi si riflette il mare, nei loro colori la luce di un sole prepotente, nelle loro movenze l’agio e le memorie di millenni di storia. Raccontandosi, oltre a riportarsi in terra natia, si portano dietro un discreto e sempre crescente numero di milanesi o nordici in generale che, incantati dal mito, hanno deciso di scendere, come Annibale dalle montagne, e conquistare, benevolmente, i luoghi reconditi di Sicilia.
E cosi camminando fra vigneti e muri a secco, fra carrube e cavalieri, di tanto in tanto si intravede un casolare ristrutturato, una piscina azzurrissima, un campo da tennis, filari di buganvillea, roseti fra gli ulivi secolari e tanto, tantissimo ordine. Sono le case di una nuova categoria, quella di chi vede nella Sicilia un luogo esotico e magico talmente magico da investirci su e comprare, ristrutturare, svernare e villeggiare.
È vero, sono un po’ bizzarri. A volte, arrivano in Sicilia come i conquistadores pieni di preconcetti ma poi si innamorano perdutamente di ogni cosa, anche di tutte quelle cose che per noi sono così scontate da risultare banali. Si stupiscono di tutto, si incantano come bambini, guardano alla ricotta come ad una divinità antropomorfa, al mare che lambisce la porta di casa come all’horror loci, alle vecchiette in chiesa come comparse di un film alla Pietro Germi. Sono teneri talune volte nel loro cercare di comprendere il siciliano o addirittura provare a parlarlo. Per loro è tutto “pazzesco e straordinario”, ogni tanto lamentano un po’ di inefficienza e rifuggono tenacemente la cosa pubblica preferendo il contatto con il privato, del resto come dargli torto.
A questi villeggianti moderni, chic e solitari, va riconosciuto il coraggio di aver investito in una terra difficile e un grazie per avere scelto, con gusto, un triangolo di struggente bellezza e fascinosa armonia.
Le loro case sono magnifiche combinazioni d’arte da nord a sud, svettano teste di moro piene di insalate di avocado, troneggiano sui candidi buffet sushi e scacce di pomodoro. Il Cerasuolo di Vittoria va a braccetto con il Gewurtztraminer e il risotto alla milanese si abbraccia con l’arancino al ragù, come chiara testimonianza del fatto che siamo tutti figli della stessa madre. A loro va l’indiscusso merito di amarci, a noi quello di saperci fare amare. Restiamo quindi e se proprio vogliamo andare via quantomeno torniamo. Perché al pessimista che, magari disperato, si ostina a sostenere che in Sicilia “Dio è morto”, noi rispondiamo con disincantato ottimismo: “Ma non era risorto?”
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12 Agosto 2017, 07:24