14 Giugno 2024, 16:07
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PALERMO – Il suo nome compare da anni nelle inchieste giudiziarie e patrimoniali. Nei confronti di Giovanni Francesco Becchina stavolta scatta il sequestro di tre anfore tardo romane e un basamento in marmo di età ellenistico-romana.
Il provvedimento è della sezione misure di prevenzione del tribunale di Trapani che ha accolto la proposta della Direzione distrettuale antimafia di Palermo, basata sulle indagini della Dia.
Becchina, 85 anni, ufficialmente fa il mercante d’arte, ma nella sua vita avrebbe incrociato pezzi da novanta di Cosa Nostra. Nel 2017 gli inquirenti gli sequestrarono aziende, terreni, conti bancari e immobili di pregio, tra cui un’ala del castello “Bellumvider”. Un edificio del 1200 costruito per accogliere Federico II, poi diventato Palazzo ducale dei principi Pignatelli Aragona.
È stato anche titolare di una galleria d’arte a Basilea. Nei magazzini erano custoditi migliaia di reperti archeologici risultati provenienti da furti, scavi clandestini e depredazioni di siti, oltre che un archivio con più di tredicimila documenti (fatture, lettere indirizzate agli acquirenti, immagini fotografiche di reperti) sui traffici. Le opere d’arte furono sequestrate, ma Becchina uscì indenne dal processo per prescrizione.
La svolta di Becchina si manifesta quando compra l’albergo di Basilea dove aveva iniziato a lavorare come fattorino. In mezzo ci sono tanti altri investimenti anche nella produzione di olio che finisce pure sulla tavola della Casa Bianca.
La passione per le opere d’arte nacque quando conobbe la moglie, di origine tedesca, che lavorava nella bottega svizzera di un antiquario. Pochi anni dopo era già il riferimento di grandi collezionisti e dei più prestigiosi musei del mondo.
All’inizio degli anni Ottanta rifilò per venti miliardi di vecchie lire al Getty Museum di Malibù una statua di dubbia provenienza. E sempre al Getty della città californiana piazzò il cratere di Assteas.
Ci sono pagine rimaste oscure nella vita di Becchina anche se le indagini non hanno trovato alcuno sbocco processuale. Tra i suoi contatti c’era un tale Giuseppe Fontana, indagato per una rapina messa a segno a metà anni degli anni Ottanta ai danni dell’Hotel Drei Konige di Basilea.
C’era il sospetto che dietro il colpo ci fosse Matteo Messina Denaro e si parlò della misteriosa presenza del latitante in un albergo elvetico dal quale avrebbe chiamato Becchina al telefono. Nessuna conferma, però, è mai stata trovata. Nulla di concreto che confermasse l’episodio.
Becchina faceva parte del consiglio di amministrazione dell’Atlas cementi di Mazara del Vallo. La Atlas, oggi confiscata, era di proprietà di Rosario Cascio, prestanome di Messina Denaro, che ha già scontato una condanna definitiva per mafia.
Ce n’era abbastanza per fare ipotizzare ai carabinieri che Becchina avesse avuto rapporti con i Messina Denaro, interessati ai traffici di reperti archeologici. Un interesse antico tramandatosi di padre in figlio.
Fu Francesco Messina Denaro, il padre del latitante morto lo scorso settembre ad organizzare il furto dell’Efebo di Selinunte, nel 1962. La piccola statua greca sparì dalla scrivania del sindaco di Castelvetrano. I ladri cercarono di piazzarla in America e Svizzera.
Poi chiesero, senza ottenere neppure una lira, un riscatto di 30 milioni al Comune trapanese. Infine, il 14 marzo del 1968 l’Efebo fu recuperato dalla polizia a Foligno, in Umbria.
Giovanni Brusca, un tempo spietato killer di San Giuseppe Jato, nel 2004 dichiarò che Matteo Messina Denaro aveva ereditato dal padre “l’amore e la passione” per l’archeologia e l’arte. Aggiunse che il latitante gli fece incontrare Becchina, riconosciuto da lui in foto, per recuperare un reperto che valeva un miliardo e mezzo di lire.
Doveva essere “merce di scambio” con lo Stato per ottenere benefici carcerari per i detenuti. Anche stavolta, nessun riscontro.
Un altro pentito di mafia, Concetto Mariano, ex vigile urbano nel libro paga del clan di Marsala, raccontò dell’incredibile progetto organizzato, e per fortuna non realizzato, da Matteo Messina Denaro per rubare il “Satiro danzante” ripescato nel mare di Mazara del Vallo.
Lo voleva rivendere, a suon di milioni, ad un collezionista straniero. Qualcuno, alla fine, si tirò indietro, e non se ne fece più nulla.
Da ultimo, poco prima di morire, Lorenzo Cimarosa, cugino di Matteo Messina Denaro, aveva parlato dei rapporti fra Becchina e il latitante. Una confidenza che gli era stata fatta da Francesco Guttadauro, nipote del capomafia.
È stato lo stesso Messina Denaro, dopo la cattura e poco prima di morire, a raccontare ai pm che il padre, faceva il tombarolo nel sito archeologico di Selinunte. “Vivo bene di mio, di famiglia. Mio padre era un mercante d’arte”.
Ed ancora: “Io sono appassionato di storia antica da Roma a salire. Mio padre non è che ci andava a scavare però a Selinunte a quell’epoca c’erano mille persone e scavavano tutte. In genere il 100% delle opere le comprava mio padre che poi venivano vendute in Svizzera e poi arrivavano dalla Svizzera dovunque: in Arabia, negli Emirati e noi vedevamo cose che passavano da mio padre nei musei americani”.
Il patrimonio di Becchina sarebbe enorme e di impossibile quantificazione. “Pur non riportando ad oggi condanne definitive per il reato di associazione mafiosa, le sue frequentazioni, i suoi ‘traffici’ e i rapporti diretti con gli ambienti della criminalità organizzata di tipo mafioso castelvetranese rendono infatti, attuale e rilevante il suo grado di pericolosità qualificata”, si leggeva nel provvedimento del 2017.
Allora erano rimasti fuori i reperti oggi finiti sotto sequestro.
“La notizia per risultare più interessante è stata arricchita con l’ormai consueta favola della mia vicinanza a Matteo Messina Denaro. Pur essendo stata acclarata come circostanza “inesistente“ nei pronunciamenti dell’ autorità giudiziaria che ha archiviato queste fantasie in tempi brevissimi.
La vicenda del 13 giugno 2024 non è avvenuta nei termini pubblicizzati, e pertanto per amore di verità va riportata in modo corretto.
Come ritengo ormai sia abbastanza noto, nel novembre del 2017 il tribunale delle misure di prevenzione di Trapani ha promosso un procedimento nei miei confronti disponendo il sequestro (provvisorio) dei miei beni, finalizzato, in caso di condanna, alla confisca.
Il procedimento è ancora in corso.
Tra i beni, all’interno della mia abitazione nel 2017, gli agenti nell’effettuare il sequestro preventivo hanno annotato alcuni reperti archeologici e precisamente:
un basamento in marmo di forma triangolare raffigurante una scena mitologica scolpita sul lato principale, nonché tre anfore con concrezioni marine. Tutti reperti rimasti nello stesso posto dove in quell’anno furono visionati dai funzionari dello Stato.
Reperti, quindi, di legittima provenienza acquistati all’estero, importati e sdoganati alcuni decenni prima, presso gli uffici della dogana di Marsala con l’autorizzazione della soprintendenza ai BB.CC. di Trapani.
La stessa autorità giudiziaria, a fronte della documentazione dei reperti prodotta all’epoca ha riconosciuto la legittimità della mia proprietà.
Intanto a distanza di circa sette anni, con evidente ripensamento, la Dia di Trapani ha proceduto ad asportare i detti beni archeologici dalla mia abitazione, dove già si trovavano nel 2017, trasferendoli presso i magazzini della soprintendenza di Trapani non perché di provenienza illecita ma in quanto beni mobili di mia proprietà suscettibili di una custodia ufficiale.
Pertanto ogni riferimento a sequestro di beni archeologici detenuti illegalmente è falso e fuorviante, come altrettanto falso è ogni riferimento a Matteo Messina Denaro. Persona con la quale non ho mai avuto rapporti di alcun genere, in Italia e all’estero, tantomeno telefonici come falsamente si è voluto sostenere. Sempre al riguardo di Messina Denaro tengo a precisare che in occasione del mio rientro definitivo dalla Svizzera Messina Denaro era latitante da qualche anno”.
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14 Giugno 2024, 16:07