29 Luglio 2017, 06:00
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Ex post le parole del procuratore aggiunto di Reggio Calabria, Giuseppe Lombardo, hanno il retrogusto amaro del vorrei ma non posso. Quale migliore occasione – era il giorno in cui si commemorava Paolo Borsellino – per annunciare, il 17 luglio scorso, che a breve avrebbe svelato la parte calabrese della Trattativa Stato-mafia. Il dovere del silenzio imposto dalla toga gli tolse il gusto dell’annuncio. La notizia rimase sulla punta della sua lingua. Mica poteva anticipare che dieci giorni dopo sarebbero stati spiccati due mandati di cattura.
Il giornalista-moderatore, al convegno organizzato alla facoltà di Giurisprudenza di Palermo, si interrogava sul vero significato degli attentati che tra il 1993 e il 1994, in Calabria, ebbero come vittima dei poveri carabinieri. Si chiedeva se non dovessero essere inquadrati come macabri tasselli di un piano complessivo. Lombardo aprì il suo intervento dicendo che “di questa ricostruzione dovrà darsi atto nelle sedi competenti” e lo chiuse affermando, comunque, che “quei pezzi li abbiamo ricostruiti”.
Insomma, il ragionamento extra giudiziario sussurrato negli anni, qua e là, e anticipato da alcuni articoli di stampa, sarebbe prestissimo divenuto materia giudiziaria. E mentre invitava a portare pazienza Lombardo stava seduto al tavolo dei relatori assieme all’ex procuratore aggiunto di Palermo Antonio Ingroia, al sostituto procuratore nazionale antimafia Antonino Di Matteo, all’ex aggiunto della Dna e attuale componente della commissione parlamentare d’inchiesta sul caso Moro, Gianfranco Donadio.
Un’autorevole rappresentanza di quel sodalizio che gira in lungo e in largo l’Italia, fra convegni e conferimenti di cittadinanze onorarie, sostenendo di avere le prove dell’esistenza della trattativa Stato-mafia. E le porta nei processi dove finora le teorizzazioni si sono scontrate con la realtà, ben diversa, delle assoluzioni. Non importa, il sodalizio va avanti contro tutto e tutti. Soprattutto contro gli eretici che criticano, ma sono nemici della verità e per loro non c’è posto nella confraternita della Trattativa.
Alla commemorazione di Paolo Borsellino il procuratore aggiunto Lombardo ammetteva di avere seguito un metodo “sbagliato”. Acqua passata. Finalmente, diceva, sono state “recuperate parti disperse”. “Leggere e rileggere” gli atti giudiziari è servito a lasciarsi alle spalle il peccato originario di avere sminuito lo spessore dei boss della ‘ndrangheta.
La Trattativa Stato-mafia, dunque, si estende in Calabria. C’era un patto segreto tra Cosa nostra e ‘ndrangheta per costringere le istituzioni ad allentare la severità delle norme contro la criminalità organizzata. Furono uccisi due giovani carabinieri e feriti altri quattro fra la fine del 1993 e gli inizi del 1994. L’arresto dell’anziano capomafia calabrese Rocco Santo Filippone e la nuova ordinanza di custodia cautelare notificata nei giorni scorsi in carcere al boss di Brancaccio Giuseppe Graviano completano il travaso giudiziario dalla Trattativa alla Trattativina (senza offesa, ma solo per distinguere le due inchieste).
Mentre a Palermo si celebra il processo in Corte d’Assise, a Reggio Calabria si gettano le basi per il dibattimento del futuro. Inchieste e processi di una infinita stagione giudiziaria hanno un minimo comune denominatore. Pescano sempre nel pentolone dei “sistemi criminali”, che ufficialmente non esistono (l’inchiesta è stata archiviata), ma per molti sussiste il dubbio. Già basta e avanza per alimentare convegnistica, saggistica e attività giudiziaria. L’ideologo di un’indagine sempreverde e in continuo aggiornamento è Roberto Scarpinato, oggi procuratore generale a Palermo. La sua “inquisitio generalis” invertiva l’ordine delle cose. Non si partiva “da”, ma si andava “alla” ricerca di ipotesi di reato. In principio fu un’informativa della Direzione investigativa antimafia del 4 marzo 1994 a intravedere “una connessione tra le stragi mafiose di Capaci e via d’Amelio, con gli attentati di Firenze, Roma e Milano per la realizzazione di un unico disegno criminoso che ha visto interagire la criminalità organizzata di tipo mafioso, in particolare cosa nostra siciliana, con altri gruppi criminali in corso di identificazione”. L’ipotesi dei pm era che fra la fine del 1991 e gli inizi del 1992 si svolsero riunioni fra i capi di Cosa nostra per “l’approvazione di una profonda ristrutturazione dei rapporti con la politica”.
Innanzitutto i mafiosi guardarono con interesse al sorgere dei movimenti separatisti. Volevano dare vita ad una lega meridionalista e secessionista – Sicilia Libera – sponsorizzata da Riina, dai fratelli Graviano, e dai catanesi Santapaola ed Ercolano, e al contempo appoggiata da soggetti “esterni” individuati in Licio Gelli per la P2 e Stefano Delle Chiaie per la destra eversiva. La strategia d’attacco di Cosa Nostra, iniziata a Palermo con l’omicidio di Salvo Lima nel 1992 veniva considerata l’attuazione del programma criminoso di un’associazione finalizzata all’eversione dell’ordine costituzionale.
Era il 2001 quando il pool coordinato da Scarpinato, e di cui faceva parte anche Ingroia – altro relatore del convegno di cui sopra – concludeva che “non sembrano essere stati acquisiti, allo stato, elementi probatori tali da ritenere integrata la fattispecie…”. La strada, però, era tracciata. Ci avrebbero pensato altri a percorrerla. Come i magistrati di Reggio Calabria che sono ripartiti dai “sistemi criminali” superando l’ostacolo che neppure Scarpinato era riuscito ad aggirare. Il punto di arrivo è lo stesso, e indimostrato, di allora. Altro che inaffidabili leghe meridionaliste, i mafiosi cambiarono cavallo politico quando nacque Forza Italia. La strategia stragista “si arresta o si depotenzia non appena i corleonesi, la `ndrangheta e altre organizzazioni criminali – ha detto Lombardo nei giorni scorsi – trovano nel nuovo partito di Forza Italia la struttura più conveniente con cui relazionarsi”.
L’intuizione di Scarpinato si era arenata per colpa dei vuoti di conoscenza di pentiti storici come Salvatore Cancemi e Giovanni Brusca. Ai magistrati palermitani e calabresi è andata meglio. Per la verità è andata meglio anche a Gianfranco Donadio, un altro dei relatori del convegno, protagonista di un’indagine “parallela” stoppata e denunciata. Il già magistrato della Direzione nazionale antimafia se n’era andato in giro per le carceri italiane ad ascoltare indagati e pentiti, fino a quando i procuratori di Caltanissetta Sergio Lari (oggi procuratore generale) e di Catania Giovanni Salvi (oggi procuratore generale a Roma) non avvisarono il procuratore antimafia Franco Roberti. Donadio rischiava di pregiudicare l’esito delle inchieste con la sua attività invasiva: 600 richieste di informazioni alla polizia giudiziaria, 119 colloqui investigativi, fra cui 56 collaboratori di giustizia, decine e decine di verbali acquisiti tra il 2009 (Donadio aveva la delega dell’allora procuratore nazionale antimafia Pietro Grasso che gli sarebbe stata poi revocata da Roberti) e il 2013. Tra le informazioni raccolte da Donadio c’erano anche quelle di Nino Lo Giudice, un tempo a capo di uno dei più potenti clan di Reggio Calabria. Si pentì la prima volta nel 2010. Nel 2013 evase dagli arresti domiciliari nella località segreta e scrisse due memoriali per infangare Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Renato Cortese (allora rispettivamente procuratore, aggiunto e capo della Squadra mobile di Reggio Calabria) di averlo obbligato a raccontare un mucchio di fesserie. Sei mesi dopo la fuga Lo Giudice fu arrestato in una villetta a Reggio Calabria. Pochi mesi dopo, il nuovo pentimento. Due agenti dei servizi segreti lo avevano minacciato. Doveva smetterla di parlare con Donadio di “faccia da mostro”, il soprannome affibbiato a Giovanni Aiello, ex poliziotto in pensione.
Lo Giudice nei suoi precedenti verbali si era “dimenticato” di un particolare: a fare saltare in aria il giudice Paolo Borsellino sarebbe stato Aiello. Glielo confidò anni fa Pietro Scotto quando erano in carcere all’Asinara e anni dopo lo stesso Aiello che – altro fatto che gli era sfuggito di mente – avrebbe pure partecipato all’omicidio dell’agente Antonino Agostino e della moglie Ida Castelluccio, uccisi a Palermo nel 1989. Le sue dichiarazioni, rese a Reggio Calabria, furono trasmesse alle procure siciliane. Sul delitto Agostino la Procura di Palermo di Palermo ha chiesto l’archiviazione più volte, fino a quando Scarpinato non ha avocato a sé le indagini.
Della nuova inchiesta calabrese fanno parte anche le dichiarazioni di Consolato Villani, ex killer della ‘ndrangheta. Tra le cose riferite dal pentito c’è la sua partecipazione, quando aveva appena diciassette anni, agli agguati contro i carabinieri. Reato per cui è stato condannato. Una sua deposizione al processo sulla Trattativa in corso a Palermo ha di fatto eliminato l’effetto sorpresa ai nuovi sviluppi investigativi. Aveva sostenuto, infatti, che le tre azioni punitive contro i militari facevano parte di “un attacco contro lo Stato che comprendeva anche le stragi siciliane”.
Il 18 gennaio ’94 una raffica di mitra uccideva Antonino Fava e Vincenzo Garofalo. Secondo i pm palermitani, non poteva passare inosservata la prossimità al 21 gennaio ’94, giorno in cui – ha raccontato Gaspare Spatuzza – il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano, gli raccontò che i calabresi si “erano mossi uccidendo i due carabinieri” e facendo poi riferimento all’attentato allo Stadio Olimpico di Roma, fortunatamente fallito, come un “contributo” offerto da Cosa nostra ad una comune strategia. I magistrati calabresi hanno fatto tesoro delle osservazioni dei pm del processo Trattativa. Per concludere, Villani aggiunse che parecchio tempo dopo un suo cugino gli avrebbe detto che dietro gli agguati calabresi e la stragi siciliane c’era la mano degli immancabili servizi, segreti deviati.
E si ritorna ai sistemi criminali a cui si sono aggrappati anche i pm della Trattativa. Le assoluzioni di Calogero Mannino (che alla Trattativa, secondo l’assunto accusatorio, avrebbe dato il via per paura di essere ammazzato) e di Mario Mori (indicato come il mediatore della patto fra boss e uomini delle istituzioni) hanno “consigliato” ai pubblici ministeri di scavare nel passato di Mori alla ricerca delle tracce dei suoi legami con i servizi segreti con l’obiettivo di sostenere che c’era una strategia della tensione complessiva che affondava le radici nella destra eversiva e nella massoneria e a cui hanno contributi i calabresi.
Il ritorno ai sistemi criminali era stato provato, senza fortuna, dallo stesso Scarpinato al processo d’appello a Mori per il presunto, e non dimostrato, mancato arresto di Provenzano. Scarpinato aveva tentato il colpo di reni smarcandosi dalla stessa Trattativa e proponendo un tuffo nella storia di Mori, fino a giungere alla P2 di Licio Gelli. Fu stoppato dai giudici. Scavare nel passato non era utile.
Chissà se utile stavolta lo sarà. Perché è il passato che torna a farsi presente. La nuova indagine di Reggio Calabria riprende l’ipotesi che dietro le stragi di mafia del ’92-’93 ci fossero Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Su di loro hanno indagato, senza esito alcuno, le procure di Firenze e Caltanissetta. Il gip nisseno che archiviò l’inchiesta parlò di prove insufficienti, dichiarazioni dei pentiti senza riscontro, e niente elementi tali da poter sostenere l’accusa in un processo.
Ora a dare fiato all’ipotesi, però, sono arrivate le ultime registrazioni dei colloqui in carcere di Giuseppe Graviano che parla di un patto violato dal Cavaliere. Lo stesso Graviano che, così ha riferito Gaspare Spatuzza, parlò dell’aiuto dei calabresi nella strategia della tensione. Ce n’è abbastanza per rimestare nel passato che ha anche la faccia dell’ottantaseienne Bruno Contrada, svegliato qualche giorno fa nel cuore della notte per una perquisizione, poche settimane dopo che la Cassazione ha revocato la sua condanna (lo hanno giudicato per un reato, il concorso esterno, che all’epoca del processo non esisteva). Cercavano le prove del contributo dell’ex poliziotto alla stagione dei misteri la cui esistenza viene data per scontata. Insomma, una della canaglie di Stato che i convegnisti del 17 luglio cercano da decenni, ma che ancora non hanno trovato. Cosa speravano di trovare in casa di Contrada? “È una reazione da parte di chi ha perso e non si rassegna a questa inesorabile sconfitta”, ha reagito il suo legale, l’avvocato Sfefano Giordano, lo stesso che ha fatto cancellare la condanna a dieci anni già scontata per intero dall’ex poliziotto. Solo uno sfregio gratuito, insomma. Riservato a un uomo “perseguitato” dalla giustizia, uno di quelli per cui vale il principio abnorme della gogna giudiziaria. Non bastano le condanne – inflitte, espiate, revocate – per chiudere la partita.
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29 Luglio 2017, 06:00