28 Giugno 2014, 09:38
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GELA (CALTANISSETTA) – Una guerra tra bande per il controllo del territorio. E’ lo scenario che avrebbe potuto aprirsi a Gela se la Polizia e la Mobile di Caltanissetta non avessero portato a termine l’operazione “Fabula”, la scorsa notte, che ha portato in cella Roberto Di Stefano e Davide Pardo, rispettivamente zio e nipote di 46 e 33 anni e Nunzio Piero Cassarà di 47 anni. Con la loro cattura il tentativo di ricostituzione dell’organizzazione di Cosa Nostra in città viene meno e con esso anche il traffico di droga e di armi con le quali si era pronti a sparare. La polizia ne ha sequestrato ingenti quantità.
La ricostruzione delle indagini. Le attività investigative coordinate da Marzia Giustolisi e Francesco Marino, rispettivamente Dirigente della Squadra Mobile di Caltanissetta e del Commissariato di Gela hanno permesso di ricostruire episodi di estorsione ai danni di imprenditori ed intercettare numerosi canali volti alla compravendita di droga. Dopo i numerosi arresti che negli ultimi anni hanno decapito i clan, le indagini hanno svelato che nella città del golfo, il mandamento era pronto a sparare per una nuova faida interna.
Gli investigatori hanno scoperto che quella di Roberto Di Stefano, personaggio di primo piano della famiglia gelese Cosa Nostra, “figlioccio” del boss Ginetto Rinzivillo era solo una finta collaborazione di giustizia. Ricostruite quindi le fasi della fuga dalla località protetta dove Di Stefano era stato trasferito ma da dove in realtà continuava, a partecipare ad attività criminali insieme con Nicolò Piero Cassarà, longa manus sul territorio. Dunque, il reggente del clan aveva tradito gli impegni assunti con lo Stato per continuare ad estorcere denaro.
Ecco il piano. Una modalità estorsiva “ben congegnata dai due complici”, così l’hanno definita gli inquirenti. Agli imprenditori di Gela che avevano “conti da saldare” con la giustizia, Cassarà e Di Stefano facevano intendere di poter fungere da ago della bilancia per risolvere, o definitivamente compromettere, la loro situazione processuale. Cassarà si presentava come una sorta di “infiltrato” dei servizi segreti e amico di alcuni pentiti in grado di “alleggerire” la loro posizione con la giustizia. Ma seguiva una richiesta estorsiva. Nei casi in cui gli imprenditori si fossero mostrati titubanti Cassarà si presentava con il collaboratore Di Stefano per dimostrare così un rapporto amicale stretto che avrebbe potuto garantire il buon esito della richiesta avanzata da Cassarà: quella cioè di rendere dichiarazione a favore degli imprenditori. Tutto in cambio di denaro che sarebbe finito nelle mani di Di Stefano.
Le prove schiaccianti (le ricevute dei versamenti che erano stati fatti e i tabulati telefonici che documentavano i contatti tra gli arrestati) hanno incastrato i due. Un piano che il nipote di Di Stefano, Davide Pardo era determinato a contrastare per non consentire allo zio di riassumere la leadership del gruppo come se nulla fosse successo.
Gli inquirenti hanno potuto constatare che zio e nipote stavano individuando altri imprenditori, future vittime di richieste estorsive, organizzando ed eseguendo incendi e danneggiamenti, anche con armi, per intimorirle e costringerle così a pagare. Particolarmente vivo inoltre era il settore del commercio degli stupefacenti. I due infatti si stavano anche attivando alla ricerca di nuovi fornitori, nell’acquisto, nel trasporto e nella vendita delle sostanze stupefacenti. L’organizzazione mafiosa trasportava e commerciava ingenti quantitativi di sostanze stupefacenti del tipo hashish, marijuana, eroina e cocaina. E’ stato appurato che il gruppo criminale acquistava settimanalmente fino a 10 chili complessivi di panetti di hashish.
A dimostrare che lo scontro tra le faide venutasi a creare sarebbe stato inevitabile c’è un episodio ricostruito dalla Polizia. Di Stefano avrebbe ordinato alla moglie di lasciare l’abitazione dove la donna attualmente vive con le figlie, rivendicando la titolarità dell’immobile, di fatto però intestato proprio al nipote Davide Pardo. Il giorno dopo, in risposta alla pretesa di Di Stefano, sono stati esplosi tre colpi di pistola al portone dell’abitazione in cui l’uomo viveva, formalmente però di proprietà di Piero Nicolò Cassarà. Un fatto che dimostra che le armi a Gela sono in circolazione e che il clan era pronto a sparare. Rinvenute e sequestrate infatti 43 calibro 38 parabellum e 50 dello stesso calibro a salve, sul tetto di un condominio sito nella via Cortemaggiore, nel quartiere Macchitella e sequestrato anche un appartamento in via Signorini intestato a Pardo.
Chi sono gli arrestati. Roberto Di Stefano, uomo di spicco dentro Cosa Nostra che ha retto dal febbraio 2012 (mese in cui viene scarcerato) al giugno 2013. Dopo aver scalato i vari gradi della gerarchia mafiosa ed avere sofferto un lungo periodo di detenzione, ha coronato la sua “carriera” assumendo nel corso del 2012 la qualità di “reggente” del sodalizio, avvalendosi di una nutrita schiera di collaboratori da lui stesso “forgiati”, a cominciare dal nipote Davide Pardo, una sorta di “fac-totum” alle sue dirette dipendenze. Nel luglio 2013 getta la spugna e si consegna nelle mani della Polizia, dopo aver maturato la consapevolezza di essere nuovamente al centro dell’attenzione delle forze di polizia. Una decisione che induce il nipote di Di Stefano, Davide Pardo ad assumere il comando della famiglia mafiosa di Gela appartenente al gruppo Rinzivillo. Entrambi devono ora rispondere del reato di associazione mafiosa, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti e porto, detenzione abusiva e ricettazione di armi e munizionamento, (rinvenuta e sequestrata una pistola cal. 38 ed una pistola artigianale “a penna”). A Di Stefano inoltre sono state sequestrate una pistola cal. 7,65 e tre pistole cal. 38, armi prive di numero di matricola. Cassarà deve anche rispondere di due estorsioni aggravate ai danni di due imprenditori.
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28 Giugno 2014, 09:38