10 Dicembre 2022, 14:47
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PALERMO – “Ho quasi 92 anni e non penso che mi resti ancora molto da vivere, ma non aspetto la morte con timore o paura. E sa perché? Perché io sono già morto dentro, quella mattina del 24 dicembre del 1992. Quando una decina di uomini della Dia vennero ad arrestarmi a casa mia, davanti a mia moglie Adriana e a mio figlio poliziotto”. A dichiararlo è Bruno Contrada, che ricorda la vigilia del Natale di 30 anni fa, quando era alto dirigente del Sisde e venne arrestato con l’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. “Quel giorno oltre a togliermi la libertà, si presero anche la mia dignità, di uomo dello Stato. Di funzionario che ha servito lealmente l’Italia…”, racconta in una intervista esclusiva all’Adnkronos. Una vicenda giudiziaria lunga e tortuosa, terminata con la sentenza della Corte europea per i Diritti dell’Uomo di Strasburgo, secondo cui Contrada non doveva essere né processato né condannato perché, all’epoca dei fatti a lui contestati, il reato di concorso in associazione mafiosa non era “chiaro né prevedibile”.
Il 7 luglio del 2017 la decisione della Corte di Cassazione per la quale la sentenza di condanna è “ineseguibile e improduttiva di effetti penali”. “Sono trascorsi 30 anni – racconta Contrada – Dopo la decisione della Corte di giustizia europea e della Cassazione mi è stato restituito tutto da un punto di vista giudiziario, amministrativo e burocratico. Ma non mi sono stati ridati otto anni di privazione della mia libertà, la distruzione della mia carriera, l’umiliazione e la devastazione della mia famiglia, oltre che le tante umiliazioni subite. Le ferite morali ricevute, inguaribili e indimenticabili”.
Contrada ripercorre i momenti di quella mattina che sconvolse la sua vita: “È stato l’inizio della fine. Iniziarono a battere contro la porta gridando ‘Aprite, Polizia!’. Erano da poco passate le sette del mattino e alla mia porta si presentarono decine di uomini della Dia, alcuni in divisa e altri in borghese. Iniziarono a rovistare ovunque, sequestrarono persino la pistola d’ordinanza di mio figlio poliziotto, che era in casa. Ancora mi chiedo il perché… Negli stessi istanti buttarono giù la porta anche a mia sorella che abitava a Roma. La scena è questa. Io cercavo di capire cosa stesse accadendo. In quei momenti sono morto“. Poi, Contrada ricorda che nella ordinanza di custodia cautelare firmata dall’allora gip Sergio La Commare “c’era scritto che mi avrebbero dovuto trasferire nel carcere militare di Palermo, peccato che fosse chiuso… Così mi portarono con un Falcon dei Servizi Segreti al carcere militare di Forte Boccea a Roma. Lì ci rimasi per due anni, sette mesi e 7 giorni, fino all’apertura del processo – dice ricordando perfettamente tutte le date – Quando iniziò il dibattimento fui trasferito al carcere militare di Palermo che fu riaperto solo per me. Ero in totale solitudine”. E parlando del gip sottolinea anche che “quel gip fece un copia e incolla con la richiesta di arresto, in 24 ore. Compresi gli errori di ortografia…”.
E nonostante il parere favorevole del Pg della Cassazione per la conferma della sentenza – ricorda – i giudici annullarono la sentenza e rinviarono il processo a un’altra sezione della Corte d’appello”. Che confermò la condanna a dieci anni. Ribadita dalla Cassazione il 10 maggio del 2007. All’indomani Contrada si presentò al carcere militare di Santa Maria Capua a Vetere dove rimase fino al 25 luglio del 2008. Poi andò ai domiciliari per motivi di salute fino al 2012. Nel frattempo si rivolse alla Corte europea dei diritti umani di Strasburgo. Con la consulenza giuridica della docente di Diritto Penale dell’Università di Napoli, Andreana Esposito. E nel 2014 arrivò la prima sentenza che condannò l’Italia per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea “per avermi sottoposto – racconta l’ex capo del Sisde – a una pena ‘inumana e degradante’ come recita la sentenza”. Nel 2015 arrivò la sentenza Cedu che condannò l’Italia per la violazione dell’articolo 7 della Convenzione Ue. Perché Contrada venne arrestato e processato e condannato “per un reato che non esisteva nel Codice penale italiano all’epoca in cui avrei commesso i fatti contestati”. Le due sentenze sono state recepite dalla Cassazione che dichiarò “ineseguibile e improduttiva di effetti penali le sentenze di condanna”. “Mi è stato restituito il Tfr, l’adeguamento della pensione, e tutto il resto. Ma ciò che mi è stato tolto umanamente non mi sarà mai più restituito…”.
Poi, ci tiene a sottolineare che durante il ricorso alla Corte europea dei diritti umani, quando “leggevo quella dicitura ‘Contrada contro l’Italia” mi ribolliva il sangue. Il mio pensiero che potesse sembrare che io agissi contro la mia patria non mi faceva dormire la notte. Io, un uomo dello Stato. Così fiero di avere indossato la divisa”. E ricorda quando il pentito di mafia Francesco Marino Mannoia cambiò versione affermando in un primo momento di non conoscerlo e poi, invece, accusandolo. Mannoia era stato sentito, negli Stati Uniti, due volte, nell’aprile del 1993, dal pool di magistrati della Procura della Repubblica Palermo e da quelli di Caltanissetta. Oggetto: l’omicidio Lima e le stragi dei giudici Falcone e Borsellino. Nel corso delle audizioni, gli era stato chiesto dagli inquirenti se sapesse qualcosa di Contrada. E lui dichiarò di sapere soltanto che Bruno Contrada era un funzionario di alto grado della Polizia che operava a Palermo.
Successivamente, nel secondo verbale, disse che non gli risultava che Contrada avesse rapporti con Cosa Nostra. Mannoia, quindi, nei primi anni, fino al gennaio 1994 non aveva proferito alcuna parola accusatoria contro Contrada, ne aveva parlato appunto solo in termini generali di conoscenza di un funzionario di alto grado che operava a Palermo. Poi, nel gennaio del 1994, enunciò a carico di Contrada accuse, che non erano accuse nuove, ma erano conferme delle accuse di precedenti pentiti, cioè di Mutolo e Buscetta. “Guarda caso tutto questo accadeva poco prima che gli fosse approvato il programma di protezione…”, dice oggi Bruno Contrada. “Come mai cambiò versione, affermando prima di non avere mai sentito nulla sul mio conto e dopo un anno cambiò versione?…”.
Una vicenda giudiziaria che, però, non è ancora finita. La prossima settimana, il 15 dicembre, è attesa la nuova decisione della Corte d’appello di Palermo sul risarcimento per la ingiusta detenzione patita da Contrada. Lo scorso 25 giugno la Corte di Cassazione, accogliendo il ricorso dell’avvocato Stefano Giordano, ha annullato con rinvio l’ordinanza con la quale la Corte d’Appello di Palermo aveva rigettato la domanda di riparazione per ingiusta detenzione formulata nell’interesse di Bruno Contrada “per la pena sofferta con effetto della sentenza dichiarata ineseguibili e improduttiva di effetti penali dalla Cassazione del 2017”. Nel gennaio 2021 la Cassazione aveva annullato con rinvio l’ordinanza di risarcimento della Corte d’Appello di Palermo che aveva riconosciuto all’ex 007 la riparazione per ingiusta detenzione, quantificandola in 667.000 euro. Ripassando quindi la palla ai giudici palermitani.
Dopo il no dei giudici di Appello, dunque, giovedì prossimo la questione verrà affrontata nuovamente dai giudici d’Appello, che dovranno rivalutare il ricorso presentato dall’avvocato Giordano. Dopo la prima bocciatura, il legale aveva contestato violazione “per ben due volte il giudicato della Corte Europea, su cui il giudice interno non ha alcun margine di discrezionalità per quanto riguarda la sua esecuzione”. Nel frattempo, Bruno Contrada, continua ad aspettare.
In primo grado Bruno Contrada, alla vigilia di Pasqua del 1996, fu condannato a dieci anni di carcere, ma la sentenza fu ribaltata in appello e l’ex 007 venne assolto. Poi, il colpo di scena in Corte di Cassazione. I giudici con l’ermellino annullarono l’assoluzione con rinvio ed il processo tornò alla Corte d’appello di Palermo che, il 25 febbraio del 2006, confermò la condanna in primo grado a dieci anni. Sentenza diventata definitiva nel 2007 e Bruno Contrada, che era stato sottoposto a una lunga custodia cautelare in carcere, ritornò prima in cella e poi ai domiciliari per riconosciuti motivi di salute.
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