16 Settembre 2018, 06:00
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Che cosa cercavamo? Siamo partiti, all’alba per incontrare un uomo vestito di bianco, con fiducia, con le notizie che sapevamo di lui, nello zaino, insieme alla bottiglietta d’acqua, con l’arancina d’emergenza. Palermo era bellissima. Mondello invitava al tuffo di fine estate con uno struggimento da amante consumata. Eppure siamo partiti, lo stesso, alla volta di Papa Francesco.
Siamo andati via da casa. Per passione, qualcuno per professione. Ognuno con se stesso nel cammino, quali che fossero le mansioni, le opere e le omissioni. Nello zaino, dunque, l’acqua, le vettovaglie per resistere lungo una giornata bestiale, con un sole caldissimo, formato assassino. E portavamo noi stessi in quello zaino, logoro, della sussistenza.
C’era il nostro dolore dentro. I gatti e le persone a cui abbiamo detto addio, ma che differenza c’è? C’erano gli sguardi scambiati, prima di una insolente separazione. E le carezze che avremmo desiderato infinite e poi abbiamo scoperto che non lo erano, mentre prima nemmeno ci badavamo. C’era la mano stretta di quando ci siamo detti: ci rivedremo. E non è accaduto. Ma cosa cercavamo davvero, sulle orme di Papa Francesco?
Sudavamo, nell’itinerario e sul prato del Foro Italico, in mancanza di liquidi e di ombra. Tuttavia, non ci siamo più mossi, affrontando la canicola. Abbiamo ascoltato la Messa fino all’ultimo respiro. Sapevamo che l’uomo in bianco, via via che si procedeva, era stanco come noi, più di noi. E questo trasalimento di umanità ce lo rendeva più amico.
Lo abbiamo incalzato fino alla Missione di Biagio Conte, nella città generosa che non accetta lo sfascio, che si stende, di notte, sotto i portici delle Poste per protestare contro l’indifferenza. Abbiamo saputo quello che avrebbe mangiato ‘Papa Ciccio’, stringendo mani, baciando guance, abbracciando corpi. E lo abbiamo immaginato sempre più spossato.
C’erano anche le gioie nello zainetto del viaggio. Un anello che si infila al dito. Altri sguardi, ma, stavolta apparecchiati di fianco alla felicità. E certe tenerezze che sono rimaste appiccicate in eterno, nonostante la crudeltà dei cambiamenti.
Intanto, Papa Francesco era già stato a Brancaccio, nel mistero dell’agonia e della resurrezione di Padre Pino Puglisi e si preparava a incontrare i giovani a piazza Politeama. E lassù, su quel palco da concerto-rock, l’abbiamo rivisto, con la voce flebile, il pallore e la voglia di non fermarsi. Palermo risplendeva di bellezza. Pulita, ordinata, sgombra delle facce feroci dei suoi lunedì. Così bella, Palermo, da non sembrare nemmeno Palermo. E Papa Francesco narrava, più che parlare, della vita che sa essere meravigliosa, della speranza che può essere vera, del dolore che è di tutti, ma c’è qualcosa che lo sorregge e lo ama.
Ed è lì che abbiamo capito. Noi, prede di tempi famelici, vittime di idee confuse, bersagli sotto i colpi dell’odio che rendiamo, talvolta con gli interessi. Noi che non sappiamo dove aggrapparci, così mostriamo i denti. Volevamo ascoltare qualcosa da un cuore che ci ascoltasse, sentirci di nuovo persone sul sentiero di un odore antico e buono. Forse era questa la salvezza che cercavamo, disperatamente, seguendo Papa Francesco.
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16 Settembre 2018, 06:00