17 Settembre 2018, 12:25
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Ogni anno, nei primi di settembre, puntualmente, leggo e ascolto commenti amari sul rientro al lavoro, quasi fosse l’inizio di un calvario. E’ un fenomeno che, su scala ridotta, si registra anche ogni lunedì. C’è, verso il proprio lavoro, un corale atteggiamento di ostilità il cui senso mi sfugge. In fondo, una volta appagate le sacrosante esigenze (che corrispondono ad un diritto, peraltro irrinunciabile) di staccare, riposarsi, viaggiare, fare nuove esperienze o anche solo dormire fino a tardi, il ritorno alle rispettive attività dovrebbe essere vissuto con rinnovata energia, se non, addirittura, con entusiasmo.
Ma vedo che non è così, e quello che prevale è un diffuso sentimento di insofferenza. A volte mi viene il dubbio che tutti quei discorsi sul lavoro, inteso come strumento che consente all’individuo di esprimere la propria personalità, siano niente più che un accademico esercizio di filosofia, e che l’accredito dello stipendio a fine mese rappresenti il solo momento appagante del lavoro, tutto declinato, per il resto, sotto il paradigma della penosità.
E’ un atteggiarsi talmente diffuso che talvolta mi sembra essere il frutto di una forzata ostentazione, più che di un autentico sentire. Quasi si avesse la paura di apparire secchioni, stacanovisti, aridi addirittura, privi di interessi ed incapaci di godere dei vari, autentici piaceri che la vita offre o di coglierne la vera essenza. Naturalmente ognuno è libero di trovare dove vuole la vera essenza della vita.
Sergio Marchionne, per dire, era uno che non staccava mai, lavorava a ritmi folli anche 20 ore al giorno, e una volta definì addirittura “una pirlata” il ricorso alle ferie di agosto.. Ricordo di aver letto numerosi articoli in cui veniva sottolineato che in 10 anni si era presa una sola vacanza. Ecco, per esempio, lui era uno di quelli che al concetto di penosità del lavoro, contrapponevano quello di penosità della vacanza.
“Penosità della vacanza”. Un concetto eretico, quasi blasfemo, forse rivoluzionario. Sarà per questo che lo trovo terribilmente affascinante. Ma non è questo il punto. Il fatto è questa concezione del lavoro (vera o di maniera che sia), tambureggiata in senso vagamente biblico, forse, lascia l’amaro in bocca a chi un lavoro non ce l’ha, e lo cerca disperatamente.
“Quella fabbrica è la mia vita, ci lavoro da trent’anni”, cosi ha detto, nel corso di una intervista, un lavoratore di una fabbrica di acciaio di Figline Valdarno, a rischio di chiusura. Non credo che si riferisse solo alla paga. Chissà cosa darebbe per dire “Sono finite le ferie. Che bello, domani torno al lavoro”.
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17 Settembre 2018, 12:25