Un guitto ci salverà - Live Sicilia

Un guitto ci salverà

Salvo Piparo e la 'Buttanissima'. Ecco la nuova maschera popolare che racconta la fame di Palermo e l'inedia di dignità. Con la poesia di uno sberleffo.

Piparo, la maschera di Palermo
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La fame, la bellezza, lo sberleffo. Null’altro rimane di Palermo. La bellezza resistente della città sfiorita, tradita dai suoi vicerè. La fame che è brontolio di stomaco vuoto, nella magrezza di troppe menzogne. Lo sberleffo che è pianto coperto con la cipria dell’ironia. Niente rimane, se non la maschera, quando il volto è stato prosciugato dalla desolazione.

Palermo può vantare grandi maschere affamate. Peppe Schiera, poeta della guerra e delle macerie, cantava: “Quannu u re era re mancava u cafè. Ora è ‘mperaturi e manca u caliaturi. E si pigghiamu n’atru statu manca puru u surrogatu”. Salvo Licata, scrittore della città nera, era l’esploratore dei vicoli; sapeva raccontare l’oscurità, pure amandola, come un tratto di ciò che è umano. Da quella stirpe di nobili cercatori d’ombre è sbucato Salvo Piparo: la marionetta contemporanea che scopre la nudità dei potenti e delle loro promesse vane. Se ne sono accorti tantissimi palermitani che – sabato scorso, al teatro ‘Biondo’, in occasione della messinscena di ‘Buttanissima Sicilia’ – gli hanno tributato il giusto riconoscimento.

Come sia arrivato sul palcoscenico della sua consacrazione è una parabola dei miracoli che talvolta accadono tra le macerie. C’era dunque da mettere in scena ‘Buttanissima Sicilia’, pamphlet di Pietrangelo Buttafuoco contro l’isola crocifissa alla sua autonomia e ai capricci insultanti di un potere senza pudore. Peppino Sottile – demiurgo dell’opera – cercava una figura adatta: non solo per reggere la trasposizione teatrale del libro, ma soprattutto per farsi carico di una scrittura di strada – da Schiera a Licata – che ha innervato lo spettacolo con le sue irriverenti trovate.
Piparo è apparso della taglia giusta, con la mini-compagnia composta da Costanza Licata – figlia d’arte – e Rosemary Enea. Quel fisico che denuncia appetito, quegli occhi da poeta di malinconia e rabbia, quella voce “a cannavazzo”, in grado di esprimere tutte le tonalità gutturali dell’idioma da marciapiede, sono stati scritturati.

E così “Buttanissima” è diventata una rappresentazione a doppio fondo. Si è attenuta al copione originario, raffigurando in forma di satira i “prodigi” della Sicilia del Crocettismo; al tempo stesso ha sviluppato un controcanto gestuale e palermitano, di bellezza, fame e sberleffi. E quando il prescelto ha lanciato cocci di pasta sul pubblico, per descrivere quanto sia penosa la vita abbarbicata ai vezzi del vicerè di turno, la fame di Palermo si è sentita con un sordo brontolio di Vespri. Il ruggito ha svelato una smisurata inedia di dignità.

La conobbe Peppe Schiera che morì, in maggio, sotto le bombe alleate, forse mentre cercava qualcosa da masticare; la vide Salvo Licata che tratteggiava il dolore della città nera. Quell’insaziata fame è cresciuta – di anno in anno – alla ricerca di un cibo che la rendesse almeno dignitosa. E quando crede davvero di averlo trovato, quando lo stomaco vuoto pensa di avere intercettato un filone di speranza, ecco che sbuca qualcuno che fa volare via il piatto con un colpo di mano, perché la pietanza si rivela decomposta, piena di vermi che erano solo illusioni.

Così non resta che il racconto intorno alla tavola non apparecchiata, nella magrezza di una lunghissima attesa. Non rimane che la domanda di sempre, tra la maschera e la nudità del volto: avrà mai fine la fame di Palermo? La risposta sta negli occhi stralunati e dissacranti di Salvo Piparo, nuovo, grande guitto palermitano. Sorride e piange nel suo lamento beffardo.


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