18 Febbraio 2014, 13:58
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CATANIA – Agata Balsamo aveva preso il posto del marito, il boss Orazio Privitera arrestato nel 2010, nella gestione di un gruppo mafioso che esercita potere e controllo nella Piana di Catania e nei quartieri Pigno e Librino. Tina, così è conosciuta tra gli affiliati della cosca dei Carateddi, frangia violenta e sanguinaria dei Cappello, faceva da cerniera con il carcere, dove il capomafia è detenuto in regime di 41 bis. La Balsamo insieme al cognato Giuseppe Privitera e a Giacomo “Alfonso” Cosenza costituiva il vertice di un sodalizio criminale che utilizzava i metodi tipici della mafia rurale.
Gli agenti della Direzione Investigativa Antimafia hanno arrestato 26 persone, per 8 il Gip ha disposto gli arresti domiciliari. Due destinatari dell’ordinanza sono latitanti. Le accuse formulate dalla Procura sono gravissime e vanno dall’associazione mafiosa, al traffico di droga, all’estorsione, all’intestazione fittizia di beni, fino al porto illegale di armi da fuoco, oltre alla truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni stanziate dall’UE per il sostegno all’agricoltura.
La Piana di Catania sarebbe diventata il regno incontrastato dei “picciotti” di Orazio Privitera. Il nome dell’inchiesta Prato Verde prende spunto proprio da questo aspetto dell’attività della consorteria mafiosa: il controllo del territorio avveniva attraverso l’imposizione delle “guardianie”. Gli agenti della Dia attraverso cimici, microspie, intercettazioni telefoniche e pedinamenti costanti hanno monitorato “quasi in diretta” gli incontri dei sodali che controllano campagne, pascoli, aziende di allevamento e in alcuni casi anche agriturismi attraverso la semplice intimidazione. Il nome di Orazio Privitera genera terrore: tra le distese di agrumeti è lui il capo “indiscusso”, e mentre il boss è in carcere è Tina il “capo”. La donna ha ricevuto in “eredità” il ruolo di reggente direttamente dal marito. Non solo dunque il ruolo di collegamento tra la cosca e la galera, ma di gestione diretta anche dei flussi economici provenienti soprattutto dalle estorsioni a imprenditori agricoli e a contadini.
Un controllo quello dei fondi agricoli che permetteva di accedere a ingenti somme di denaro, quelle dei contributi pubblici stanziati per il sostegno all’agricoltura. La Dia ha scoperto una truffa che ammonterebbe a oltre un milione e mezzo di euro ai danni dell’Unione Europea. Il gruppo infatti avrebbe percepito in maniera fraudolenta i fondi erogati dall’AGEA (Agenzia per le Erogazioni in Agricoltura). La truffa era stata pianificata sfruttando il metodo dell’autocertificazione, accompagnata da una relazione di un perito agrario, con cui dichiaravano di gestire particelle di terreno in realtà di proprietà di altri latifondisti in modo da raggiungere il numero di ettari necessario per poter ricevere l’erogazione dei contributi previsti a sostegno dell’agricoltura. Un sistema di cui i “truffatori” si sentivano forti perché anche se uno degli agricoltori si fosse accorto che il suo terreno era già stato destinatario dei fondi, per scoprire chi fosse l’autore della truffa si sarebbe rivolto ad Agata Balsamo. (Poi, quando il padrone dovesse accorgersene, dove andrebbe?…da Tina no???!!!…) Una parte dei contributi acquisiti illecitamente andavano nelle tasche di Agata Balsamo. (“Cci llama ddari i sordi appoì a Tina!” Traduzione: “Dobbiamo dare poi i soldi a Tina”).
Su questa duplice fonte di introito si concentra il commento del Procuratore Giovanni Salvi: “Questo gruppo operava con i metodi della cosiddetta mafia rurale ma anche era capace di pianificare stratagemmi per accedere illecitamente ai fondi pubblici. Questo dimostra – conclude – come il clan operasse attraverso sistemi che hanno radici lontane come la guardiania a cui vengono affiancate moderni stratagemmi per l’accaparramento fraudolento di stanziamenti europei”.
Agata Balsamo era il punto di riferimento del gruppo: non solo come interfaccia con Orazio Privitera in carcere. Alla donna viene riconosciuto il potere anche per risolvere, in modo autonomo, questioni delicate e conflitti riguardanti la gestione della guardiania. Attività questa che permetteva attraverso l’intimidazione tipica del metodo mafioso di ottenere consistenti proventi: i proprietari dei terreni pagavano una sorta di “pizzo” o consegnavano parte del raccolto. Il controllo era su diversi tipi di imprese agricole, masserie, allevatori e anche aziende agrituristiche che insistevano nel territorio della cosiddetta Piana di Catania, da Scordia alla zona limitrofa all’aeroporto di Catania.
Nella gestione della guardiania rivestivano un ruolo primario i fratelli Salvatore e Franco Marino, titolari di due imprese agricole nella zona di Scordia che, da come emerge dall’inchiesta, erano solidamente inseriti all’interno del gruppo criminale di Privitera (lo avevano supportato anche nel periodo di latitanza) e curavano gli interessi dell’organizzazione avendo come punto di riferimento Tina Balsamo. Inequivocabile l’episodio in cui era sorto un conflitto con un affiliato del Clan Cappello, che aveva usato il nome di Orazio Privitera in un’azienda già sotto il controllo del gruppo. Franco Marino aveva deciso di risolvere da solo la questione, ma ad un certo punto un altro indagato, Franco Platania comprendendo quanto fosse delicata la controversia che poteva sfociare in una tensione interna rimprovera Marino – come captato in un’intercettazione- spiegandogli che doveva investire della risoluzione Agata Balsamo. “Se ti hanno fatto il nome di Orazio – afferma – tu dovevi avere a che fare con Tina, perché lui ti ha fatto il nome dì suo marito, è inutile che tu te ne vai a cagare ed ammaccare in altri posti. Hai sbagliato e basta”.
Una penna invisibile quella del pizzo che traccia in maniera netta chi è il capo di quella determinata zona, delimitata dalla maledetta Catania – Gela. Tra le vittime il gestore della Q8 dell’asse dei servizi “costretto” a pagare l’estorsione oltre che a fornire di benzina Tina Balsamo per i suoi viaggi in auto fino all’istituto penitenziario de L’Aquila dove è detenuto il marito. Il gruppo utilizzava un sistema di estorsione non “tradizionale”: non veniva imposto il pizzo da pagare mensilmente; ma con l’affidamento di un servizio connesso all’attività principale. Questo “modus” sarebbe stato imposto ai titolari del lido La Cucaracha che avrebbe affidato a Orazio Buda la gestione del parcheggio in cambio di un “irrisorio” canone di locazione. Inoltre, Buda e un altro degli arrestati Alfio Vecchio, avrebbero assunto l’incarico di security e vigilanza relativa alla discoteca e all’Afro Bar dello stesso stabilimento balneare della playa. In merito a questo il collaboratore Cosenza, si legge in un verbale, dichiara alla magistratura: “Conosco Orazio Buda, so che in alcune occasioni si è appropriato di soldi dell’estorsione in danni del titolare della Cucaracha ed è vivo solo perché cugino dì Orazio Privitera”.
Il nome di Buda compare anche in merito ad altre contestazioni della Procura. Tra le accuse degli inquirenti vi è anche l’intestazione fittizia di beni, tra questi il chiosco di Viale Castagnola formalmente di proprietà di un prestanome. Secondo le ipotesi investigative il vero titolare è Orazio Buda, uno degli arrestati. Il chiosco sarebbe infatti uno dei luoghi dove si svolgevano incontri e colloqui diretti alla gestione degli affari del gruppo criminale.
I proventi illeciti finivano in una cassa comune utilizzata, a detta degli investigatori, per le spese legali degli affiliati e per sostenere la detenzione del reggente della cosca. Le molteplici ipotesi di reato fanno ben comprendere che gli interessi criminali del clan si orientavano anche su altri settori. L’inchiesta Prato Verde che riguarda un’attività di intelligence svolta tra il marzo del 2011 all’ottobre del 2012 hanno aperto nuovi spunti investigativi. C’è da evidenziare infatti che oltre alle persone arrestate vi sono altre 27 persone iscritte nel registro degli indagati.
E se nemmeno l’arresto di Orazio Privitera era riuscito a fermare l’organizzazione, ad un certo punto nel 2012 il pericolo di un completa decapitazione del gruppo investe in pieno Agata Balsamo. La moglie del boss legge sui giornali che il cugino del marito, Giacomo Cosenza ha deciso di collaborare con la magistratura. La reggente del clan sente il fiato sul collo: le cimici della Dia captano la pressione a cui è sottoposto il clan che vorrebbe far tacere il “traditore sbirro”.
Dal dialogo tra Tina e un indagato trapela in maniera palese lo stato di allarme che si respirava: “Però, ti posso dire una cosa una volta era peggio, ma non era tanto peggio peggio, quando una volta quando c’erà una cosa di queste… uno di questi faceva queste cose gli iniziavi a sterminare …. inc… quello che gli dovevi sterminare”. B(Balsamo Agata): “A verità” A: Ora perchè c’è l’amicizia, perchè c’è la parentela, quello … inc… fa lo spacchioso e a noi ce la mettono sempre dietro. Ora è bello così, ora è bello così giusto? B: …inc… A: Ora è bello così B: io non lo so. Io sono qui. A: Cominciamo a sterminare. Vediamo che fa dopo”.
Tina, forse, dopo quasi due anni si sentiva al sicuro. Ma quelle dichiarazioni, come tante altre, sono finite sui nastri degli investigatori della Dia che hanno continuato l’inchiesta che oggi ha portato alla decapitazione totale del gruppo di Orazio Privitera. Chissà quale sarà la reazione del boss quando saprà che il suo clan, insieme alla moglie, è finito dietro le sbarre?
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