13 Marzo 2014, 06:00
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PALERMO – È un segnale lanciato all’interno e nel contempo verso l’esterno. Indirizzato innanzitutto a chi si era convinto di potere alzare la testa a Porta Nuova, ma che finisce per travalicare i confini del mandamento. Giusto per mettere le cose in chiaro. Porta Nuova si candida, oggi più che mai, a fare la voce grossa nella Cosa nostra palermitana.
E lo fa con l’omicidio di Giuseppe Di Giacomo che a qualcuno potrebbe essere servito per dimostrare che chi sbaglia paga. Con il piombo. Quando si ammazza un uomo, come è avvenuto ieri, in via Eugenio l’Emiro, in pieno giorno, in una strada affollata di un rione popolare, è perché si vuol fare passare un messaggio di forza. Di Giacomo potrebbe essere stato ammazzato per punire un uomo, e forse neppure l’unico, che si era allargato approfittando di un momentaneo vuoto di potere. Probabilmente a Di Giacomo era stato inviato qualche avvertimento rimasto inascoltato. Ed è su questo fronte che si indirizzerebbero le indagini, piuttosto che sul terreno del regolamento di conti nell’ambito degli affari della droga.
La platealità del delitto sembra non lasciare spazio alle interpretazioni. È stato un delitto mafioso vecchio stampo. Non a caso ieri alla Zisa c’erano il procuratore aggiunto Agueci e i sostituti Grassi, Demontis e Malagoli. Gente che sta cercando, assieme a carabinieri e poliziotti, di tracciare gli equilibri della nuova mafia. Ed è su Porta Nuova che il sangue di ieri obbliga oggi a concentrarsi. Fino a qualche tempo, fino all’arresto del novembre scorso, nel mandamento che ingloba la parte centrale della città, i gradi di capo li avrebbe indossati Alessandro D’Ambrogio. Un capomafia emergente, che si era fatto il carcere in silenzio meritandosi il rispetto di tutti. E così sarebbe stato naturale che fosse stato lui a ricevere il testimone da Nicola Milano e Tommaso Di Giovanni, arrestati due anni prima di D’Ambrogio.
Di Giacomo non era un uomo di D’Ambrogio. O meglio non lo era né più ne meno di tutti gli altri che a D’Ambrogio portavano rispetto. Dunque, in questa fase sembrerebbe da scartare l’ipotesi che l’omicidio sia un segnale lanciato al vecchio capo ora in carcere. Così come sembrerebbe poco battuta la pista dell’avvertimento indirizzato al fratello Giovanni, ergastolano del gruppo di fuoco del vecchio padrino Pippo Calò ma ormai da tanto tempo in carcere.
In mezzo a tante ipotesi, l’unica certezza è che oggi a Palermo in circolazione c’è qualcuno in grado di crivellare di colpi un uomo. Qualcuno che ha deciso di ammazzare Di Giacomo a casa propria che, molto probabilmente, è anche la casa di chi ha inviato i sicari. Non c’è spazio per chi scalza. Di Giacomo è stato ucciso nel suo rione, a pochi passi dalla sua sala biliardo, davanti alla sua gente.
E il messaggio all’esterno? In un momento di fibrillazione, di equilibri che si ridisegnano, dimostrare di sapere premere il grilletto è una prova di forza indirizzata anche alle altre famiglie mafiose. Uccidere un uomo, non fermarsi neppure di fronte alla presenza di un minorenne per dire “ci siamo e dobbiamo agire”. Non è una sfida, perché se così fosse allora si correrebbe il rischio di una guerra di mafia. Una ipotesi che in via Eugenio l’Emiro qualcuno sussurra appena.
La mafia quando vuole sa ancora uccidere. Era già accaduto con Francesco Nangano e prima ancora con Peppuccio Calascibetta, ucciso uno nel 2013 a Brancaccio e l’altro nel 2011 a Santa Maria del Gesù. Hanno ragione allora gli investigatori a lanciare l’allarme sulla pericolosità di Cosa nostra. Come hanno fatto in occasione delle recenti scarcerazioni che hanno interessato anche il mandamento di Porta Nuova dove sono tornati liberi, per fine pena, personaggi come Nunzio Milano, Salvatore Gioeli e Tommaso Lo Presti. Sono solo tre nomi di una lista che ne comprende in tutto 36 e che preoccupa parecchio gli investigatori.
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13 Marzo 2014, 06:00