08 Luglio 2018, 19:14
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PALERMO – Quella del patrimonio culturale siciliano è una storia a tratti drammatica e surreale densa di scelte politico-amministrative suicide, di sprechi e mancati investimenti, offuscata dalle inadempienze, dall’abusivismo e dal degrado. Nonostante tutto sommato, e per vari fattori, alcuni numeri oggi siano positivi.
Un paradosso tipicamente siculo che seppur veda l’Isola tra le regioni d’Italia con il maggior numero di siti riconosciuti dall’Unesco, resta incapace di mettere davvero a reddito i suoi tesori culturali e ambientali d’inestimabile valore, nonostante i dati in crescita nel settore del turismo.
Eppure dal 1975 lo Stato ha trasferito alla Regione Siciliana i poteri in materia di “antichità, opere artistiche e musei, nonché la tutela del paesaggio”. La legge quadro regionale dall’impostazione legislativa avanzata ma risultata poi insufficiente nell’applicazione normativa, si fondava su tre pilastri: tutela e valorizzazione dei beni culturali e partecipazione democratica dei cittadini.
Di tutela e valorizzazione si parla da tempo, mentre riguardo alla partecipazione dei cittadini si è sempre detto poco. L’occasione per discutere di questi temi è offerta dalla pubblicazione del volume “Il Patrimonio degli Equivoci–Allarme beni culturali in Sicilia”. Firmato dal giornalista Antonio Gerbino e dall’architetto Francesco Santalucia, con una ricerca inedita curata da Pietro Vento, direttore dell’Istituto Demopolis, il libro ripercorre gli ultimi quarant’anni di vicende siciliane, rileggendone la storia ed evidenziando, attraverso una attenta e certificata ricostruzione d’inchiesta, le contraddizioni e i limiti di una politica che si è rivelata disastrosa.
I due autori analizzano per la prima volta la spesa destinata ai beni culturali, attraverso la lettura dei singoli capitoli di bilancio della Regione Siciliana, dalla quale si evince la creazione di un vero e proprio sistema parallelo, perverso e destinato al fallimento, che ha spostato l’interesse dell’Assessorato dai tre pilastri alle cosiddette attività culturali. Il sistema parallelo è diventato uno strumento di distribuzione di fondi drenati alle attività principali e ha foraggiato iniziative a pioggia prive di qualsiasi progettualità futura. Quando le risorse finanziarie sono venute meno per effetto della crisi, quel fragile sistema si è accartocciato su se stesso. la singolare occasione di crescita, la straordinaria potenzialità che l’autonomia aveva offerto alla Sicilia è stata vanificata trasformando i Beni culturali, in patrimonio degli equivoci.
Nel libro si rilancia il tema della cosiddetta “modernizzazione passiva”. “L’adattamento delle classi dirigenti, non solo siciliane ma più in generale di quelle meridionali, a una modernità imposta dall’esterno – spiega Antonio Gerbino – in primo luogo dallo Stato centrale, che viene accettata solo sino a quando non mette in discussione gli interessi consolidati. Modernizzazione senza cambiamento, o comunque cercando di contenerlo al minimo”.
Una chiave di lettura che ci fa comprendere come il “sistema parallelo” siciliano sia crollato perché travolto dalle istituzioni politiche ed economiche che per lungo tempo hanno concentrato il potere nelle mani di pochi e hanno limitato la partecipazione dei cittadini. “La responsabilità ricade sulle classi dirigenti che quelle istituzioni hanno incarnato e sorretto, su quanti nel tempo si sono accaparrati benefici e risorse, avendo interesse a mantenere l’economia e la società involute nella modernizzazione passiva. Il sistema era malato – continua Gerbino – nella famosa tabella H finivano la piccola associazione dell’amico del politico insieme alla Fondazione Mandralisca. Non sono stati capaci di tutelare quelle poche cose importanti private, ma che hanno una funzione pubblica: perchè chiudere le porte del museo Mandralisca significa impedire al mondo di ammirare Antonello da Messina .Non è solo un problema politico ma di sistema, le resistenze all’innovazione venivano e vengono da fuori e da dentro. Bisognerebbe chiedersi perchè non è stato possibile fare per ben sei anni una legge sui servizi aggiuntivi che a livello statale già esisteva dal 1993, la legge Ronchey”.
Eppure, sembra che nulla cambi, mentre cambia tutto: governi, assessori, dirigenti. “In Sicilia, di questa classe dirigente hanno fatto parte tutte le componenti sociali e politiche, e tutte, nella prima e nella seconda Repubblica, hanno avuto interesse a mantenere il sistema bloccato – sostiene l’architetto Francesco Santalucia – ne hanno fatto parte tutti coloro che hanno avuto un vantaggio dall’indebolimento di una rigorosa funzione di tutela esercitata dalle Soprintendenze (sempre in precarietà economica) sul paesaggio, ma, paradossalmente, anche coloro che all’interno delle Soprintendenze stesse si sono opposti al cambiamento solo in nome della difesa delle proprie quote di potere. È questa oggettiva convergenza – precisa Santalucia – che spiega perché il sistema dei Parchi archeologici previsto da una legge del 2000, sia ancora sostanzialmente fermo al palo. In questa stessa classe dirigente hanno rappresentanza, attraverso la politica e la burocrazia, interessi di settori economicamente obsoleti ma socialmente aggressivi come i venditori di souvenir, lobby politico – sindacali – clientelari come quella dei custodi, resistenze al cambiamento di gran parte di coloro che avrebbero dovuto far funzionare e crescere musei e aree archeologiche”.
E ovviamente in Sicilia si allunga, anche su questo settore, l’ombra della criminalità organizzata. “Certamente il malaffare non resta fuori dai giochi ma ne fa parte – conferma Antonio Gerbino – anche se le analisi più accreditate non considerano i beni culturali un campo di interesse privilegiato per le mafie, noi pensiamo al contrario che esse non siano indifferenti a quello che accade nel settore”.
Il sistematico saccheggio che ha riguardato straordinari siti archeologici preda ideale dei tombaroli armati di metal detector ha finanziato il mercato clandestino delle opere d’arte con immensi ricavi e riciclo di denaro sporco per la mafia. Lo attestano ad esempio gli atti del processo a Gianfranco Becchina, uno dei grandi trafficanti di reperti archeologici, dove diversi pentiti hanno testimoniato che il vecchio boss Messina Denaro manteneva la ‘famiglia’ con i proventi dello scavo clandestino.
“Mi viene da dire ma noi ve lo avevamo detto – conclude Francesco Santalucia, già direttore del Museo interdisciplinare di Enna – nel 1984 con la Cisl e il coordinamento dei collaboratori esterni delle Sovrintendenze abbiamo scritto un manifesto ‘I beni culturali di Sicilia allo sbaraglio’, sulla disfunsione, già allora, del sistema mal gestito edentrato in crisi. Una macchina che elargiva fondi a tante parrocchie. Per questo definisco il libro autobiografico: è il racconto di una vicenda vissuta in prima persona. “I beni culturali sono stati umiliati da scelte sbagliate ripetute nel tempo, piegati da pratiche clientelari; una macchina elettoralistica travolta dall’incapacità di comprendere che bisognava cambiare rotta e rifondare il sistema”.
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