17 Febbraio 2013, 07:10
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Cos’è un dono? Qualcosa che riceviamo, ovvio. Questo qualcosa può essere il più piccolo dei fiori e può rappresentare l’infinito. L’infinito di cui siamo capaci ma che a volte è troppo. Nella sala d’attesa gremita di un ospedale l’orologio digitale mi comunica che sono le sette e trenta del mattino. Intorno a me decine di persone bizzarre cercano di mascherare il dolore e la paura parlando di cose talmente stupide da diventare trascinanti.
I colori dei loro abiti e dei loro volti sono falsati dall’ombra cupa della pioggia battente. L’orario non aiuta e l’odore di ‘bevanda al gusto di cappuccino’ ha intanto annebbiato tutto l’ambiente, coprendo le colonie, le lacche per capelli e il resto dei segni di un’umanità costretta a convivere. L’incertezza, la nevrosi di una caviglia che disegna cerchi nel vuoto e la speranza occupano le poltrone vuote tra me e gli egregi sconosciuti con cui mi trovo a condividere questo momento.
Il suono di un cicalino pone tutti sull’attenti facendo calare su quello spazio un silenzio surreale e gonfio di tensione. Le nostre vite si intrecciano in sguardi di comprensione e di fiducia. Ascoltiamo il parere del medico sullo stato di salute di una persona che non abbiamo mai visto e che probabilmente non vedremo mai che in quel momento è anche nostro amico, nostro padre, nostro fratello, nostro zio. Raccogliamo soffi di parole che non ci appartengono. In quei minuti infiniti la vita assume un valore che nel quotidiano è perso, smarrito da qualche parte tra la lista della spesa e la multa che troviamo sotto il tergicristallo.
Può succedere che tu capisca il perché la vita di un bambino ha più valore della vita di un adulto e può succedere che dopo un paio d’ore tu quel motivo lo abbia scordato. Al suono delle parole ‘tripla donazione’ sai che non è il tuo turno di sperare, di attendere. La precedenza assoluta di dover assicurare la salute ad un piccolo cuore è l’unica certezza di quella giornata. La fragile, preziosa esistenza di un essere lungo meno di un metro ti fa sentire responsabile almeno quanto chi entrerà con lui in sala operatoria. Ti carica, ti riempie, ti fa venir voglia di metterti a pregare dopo anni di millantato agnosticismo.
I minuti intanto si dilatano fino a diventare ore. Ogni quattro ore ne devono trascorrere altre quattro. Poi dodici ore ancora e vedremo. Non è difficile che in quelle quattro ore, in quelle dodici ore, si perda la forza di apprezzare i doni. Non riuscire più a godere delle sfumature. Non credere di poter accettare. Nella mente di chi è in attesa del proprio turno si insinua l’ipotesi di rifiutare con garbo, voltarsi e decidere di togliere il disturbo. Queste persone hanno dimenticato di essere figli, padri, zii, fratelli, amici.
Rispettare la vita che ci è stata donata vuol dire rispettare chi aspetta di ricevere buone notizie da uno sconosciuto in camice, chi non si muove da quella poltrona da settimane nell’attesa di poter venire a sorriderti per un paio d’ore nonostante dentro sia dilaniato da giorni di pianto e che ha come unico desiderio quello di uscire da lì al più presto, con te. Portarti a casa, decidere insieme cosa mettere in tavola per cena, guardare la partita la domenica, annusare con te il più piccolo dei fiori. Forza, sempre.
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17 Febbraio 2013, 07:10