Ventitrè anni, in attesa della verità

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23 Maggio 2015, 06:00

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PALERMO – L’anno scorso coincidenza volle che, mentre si celebrava il ricordo di Giovanni Falcone, iniziasse un nuovo processo, il “Capaci bis”, lungo il percorso accidentato verso la verità. Quest’anno c’è mancato poco – una manciata di giorni – per fare coincidere, nel 23° anniversario della strage, la giornata della memoria con quella della beffa. Anzi, dello sberleffo.

Il prossimo 27 maggio in un altro processo, il “Borsellino quater”, ci sarà, infatti, l’esame di Vincenzo Scarantino. Non un imputato qualsiasi, ma il falso pentito che ha messo lo Stato con le spalle al muro. Lo ha costretto ad ammettere di avere giocato, esso stesso, una partita truccata. Non è stata una partita né breve, né riservata a pochi intimi. Le parole di Scarantino sono state considerate, e in più occasioni, oro colato da investigatori, pubblici ministeri e giudici in una lunghissima stagione di processi. La sua credibilità è arrivata fino in Cassazione, nonostante le continue ritrattazioni. Nonostante qualcuno – avvocati e magistrati – avesse messo in guardia dalle sue patacche vendute per verità. Il clima di sfiducia che c’era attorno a Scarantino lo ha ricostruito, l’anno scorso in aula, il procuratore aggiunto di Milano, Ilda Boccassini, applicata a Caltanissetta fra il ’92 e il ’94 per indagare sulle stragi. Che il pentimento di Scarantino fosse un bluff la Boccassini lo aveva pure scritto: “Con il collega Roberto Sajeva mettemmo nero su bianco le nostre perplessità, scrivemmo che si stava imboccando una pista pericolosa, lo dicemmo al procuratore Tinebra, ai colleghi Anna Palma e Nino Di Matteo, lo segnalammo in una nota inviata anche alla Procura di Palermo”. La storia, in gran parte, le ha dato ragione.

Bisogna ammettere che anche lo Stato – visto che oggi si parla tanto di responsabilità civile dei magistrati – avrebbe meritato di essere processato per gli errori commessi. Per la verità, una parte dello Stato, o meglio delle Istituzioni di allora, sotto processo c’è finito davvero a Palermo, dove accusa e difesa si scontrano sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Si processano gli investigatori e i politici, ma la magistratura, inquirente e requirente, che ha creduto in Scarantino e negli altri falsi pentiti, senza tentennamenti, è rimasta immune dal giudizio. Eppure gli errori sono stati evidenti, anche ammettendo che siano stati commessi per la sola fretta di consegnare un colpevole all’opinione pubblica; oppure che i depistatori, allora come oggi, siano stati e sono bravi a fare il lavoro sporco.

La Procura di Caltanissetta, guidata da Sergio Lari, una parte degli errori li ha smascherati e ora ha l’ingrato compito di riscrivere la storia degli anni delle stragi. Innanzitutto, ha tirato fuori dal carcere sei innocenti condannati all’ergastolo per l’eccidio di via D’Amelio.

A conti fatti, a ventitré anni dalle bombe e dopo avere celebrato una dozzina di processi, siamo di fronte ad una verità giudiziaria parziale, nel caso di Capaci, e ad una che, per via D’Amelio, nella sua quasi totalità non vale nemmeno il prezzo delle marche da bollo. Insomma, carta straccia.

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Per il massacro di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e degli agenti di scorta Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani ci sono trentasette colpevoli. Gli ergastoli sono ormai definitivi per mandanti ed esecutori materiali, tutti affiliati ai più potenti mandamenti mafiosi di Palermo, e tutti agli ordini di Totò Riina. Nel 2008, però, sono arrivate le dichiarazioni di Gaspare Spatuzza a spiegare che mancava un tassello decisivo: fino ad allora, infatti, i boss di Brancaccio erano rimasti fuori dalle indagini. Uno dei più potenti clan della città sembrava essersi disinteressato della strage. La mafia faceva guerra allo Stato e i Graviano stavano a guardare. Le cose, secondo Spatuzza, sarebbero andate diversamente. Le nuove indagini sono sfociate in due processi. Nel primo, celebrato in abbreviato e già concluso in primo grado, la ricostruzione dei pm nisseni ha retto al vaglio del giudice che ha inflitto due ergastoli e una condanna a trent’anni. Dodici anni ha avuto Spatuzza. Nel secondo troncone, in ordinario, sotto accusa ci sono altri cinque boss.

Discorso diverso per la strage Borsellino dove morirono, oltre al giudice, gli agenti Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina. Siamo giunti al processo quater. Il prossimo 9 giugno, davanti alla Corte d’appello di Catania si aprirà il primo giudizio di revisione che riguarda la posizione di due imputati. È solo l’inizio, perché nel 2011 lo Stato ha dovuto chiedere scusa a sei ergastolani e li ha scarcerati. Per loro il processo di revisione potrà iniziare solo dopo che si concluderà il quater in corso a Caltanissetta.

Dalle bugie di Scarantino si salvano solo gli ergastoli del processo ter (anche allora i pm erano Anna Palma e Nino Di Matteo) per il resto è tutto da rifare. Scarantino aveva ammesso le sue menzogne, salvo poi inscenare la ritrattazione della ritrattazione. Resta un grande interrogativo: perché mai il falso pentito non fu creduto quando disse di avere mentito sotto tortura dei poliziotti del gruppo investigativo “Falcone e Borsellino” coordinato dal prefetto Arnaldo La Barbera. Si potrebbe dire che, quando poi riammise le bugie, i pubblici ministeri ebbero il conforto delle parole di Gaspare Spatuzza. Peccato, però, che anche nella prima fase del suo pentimento Scarantino fosse stato smentito da due collaboratori dall’attendibilità certificata come Salvatore Cancemi e Giovan Battista Ferrante. C’è già sufficiente materiale per un “Borsellino quinques” visto che la Procura di Caltanissetta ha già ipotizzato un colossale depistaggio e messo sotto inchiesta i funzionari di polizia Vincenzo Ricciardi, Mario Bo e Salvatore La Barbera.

Quanto è lontana la verità? E chi lo sa. Specie se nel corso delle indagini e dei processi, tutti doverosi per carità, accade che i fascicoli si ingrossino. Ad esempio con le dichiarazioni di nuovi pentiti. Prendiamo Vito Galatolo, il boss dell’Acquasanta che mise mano al portafogli, sborsando 360 mila euro, per comprare il tritolo, 200 chili, che doveva servire per uccidere il pubblico ministero di Palermo Nino Di Matteo. Per sua stessa ammissione Galatolo vacillò di fronte alla credibilità di quella richiesta. Siccome arrivava, così gli fu detto, da Matteo Messina Denaro, Galatolo cacciò i soldi senza fare troppe domande. Le dichiarazioni di Galatolo sono confluite nel “Borsellino quater” nella parte in cui parla di Filippo Graviano e della frase -“siamo coperti” – che il capomafia di Brancaccio avrebbe pronunciato dopo la strage di Capaci e poco prima che scoppiasse l’infermo in via D’Amelio. E racconta pure di Arnaldo di La Barbera, oggi deceduto, come di uno sbirro in combutta con i mafiosi. Peggio, “nel libro paga” dei potenti Madonia. I punti oscuri, insomma, non finiscono mai. Come i processi. E così la gabbia dei misteri, l’incapacità (nella migliore delle ipotesi) o i depistaggi (nella peggiore), oppure entrambe, che hanno caratterizzato il passato giudiziario; la difficoltà di trovare oggi le risposte dovendosi misurare con fatti e atti di ventitré anni fa; la lunga stagione delle balle di Scarantino e di altri falsi pentiti, tutto ciò, forse, ha finito per alimentare l’opinione diffusa che Cosa nostra altro non sia stata che il braccio armato di menti esterne, occulte e “raffinatissime”.

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23 Maggio 2015, 06:00

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