Vieni avanti, Leopolda!

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01 Marzo 2015, 06:00

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Dimenticate Rosalia. La nuova santa patrona di Palermo si chiama Leopolda, che sarebbe come dire Matteo Renzi con un tono più aggraziato: come dire Gioconda, pensando a Leonardo. Il circo volante del Renzismo arriva dunque in città. Pianta le sue tende. E una moltitudine di figuranti si precipita a baciare l’anello gigliato del nuovo padrone. Non è Matteo il punto, come non lo era nemmeno Silvio. Ognuno si iscriva, sotto le bandiere in cui crede. Il problema è che quaggiù nessuno crede quasi più a nulla. Quaggiù, dietro ogni vessillo che sventola, dormicchia un parcheggio abusivo di richiedenti asilo, in attesa del carretto del vincitore. Dietro ogni atto pubblico, brulica una folla di potere, con privatissimi interessi.

E dietro la folla, c’è la contraddizione del potere che enuncia il meglio, accontentandosi del peggio. Davide Faraone – il padrone di casa della rappresentazione renzista – si è lanciato in un’analisi coraggiosa contro l’assistenzialismo, l’antimafia di facciata, perfino sulla presenza asfissiante dello statuto. Dal palco leopoldino, ha osato un’intemerata contro “il rito di chi pensa di fare antimafia solo presentandosi nelle Procure per fare denunce”. Quasi un affondo da capo dell’opposizione, con nomi e responsabilità intellegibili, sebbene non espressamente indicati. Infatti si è attirato la replica stizzita di Rosario Crocetta. Eppure, il Pd sostiene il governo regionale, la giunta dell’antimafia, retta dalla denuncite del presidente. Come mai? Eccolo, il meglio e il peggio.

Un affollamento brulicante sul corpo del potere: questo è l’olio su tela della Sicilia. Si è visto dalla calca leopoldista di adesioni, corroborata dall’ansia di arrivare in anticipo, per meglio baciarlo quell’anello gigliato. Si è visto dalla corsa all’oro di noti personaggi che non conoscono nemmeno il padre e la madre e che, per l’occasione, hanno aderito, con entusiasmo canino, lasciando cadere un ‘sì’ dall’alto – in risposta all’invito – alla stregua di una magnanima concessione. Davvero un povero trucchetto – quello di fingere distanza – che mal dissimula la fregola della vicinanza, di un posto in prima fila, ma anche in seconda, con la benevolenza del posteggiatore.

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Siciliani e sinistri – eccetto qualche intelligente eccezione – molti tra i leopoldisti autoctoni. Sinistri: cioè presuntuosi, convinti – ognuno da par suo – di avere l’ombelico più bello del mondo, certi di rappresentare l’arca di scienza, il santo graal dell’arte, la pietra filosofale della politica. Perciò gravemente ammalati di una sindrome narcisistica: potrà mai Renzi non accorgersi di me che sono l’orgoglio del mio manicomio? Siciliani: cioè con il fuoco sacro dell’appetito, del piatto in tavola, col bisogno inconfessabile della sopravvivenza che passa attraverso l’antica specialità olimpionica del ‘fotticompagno’ e della genuflessione. Potrà mai Renzi non occuparsi di me, non offrirmi pane e companatico, lui che è il nuovo piccolo padre?

Ne sa qualcosa proprio Davide Faraone, il gran maestro di cerimonie, uno che – comunque lo si giudichi, nel bene o nel male – vive la politica sul territorio, con una identità riconoscibile. Ebbene, Davide non ha più requie, né riposo. Non può camminare in santa pace per le strade della sua Palermo. Non può ritagliarsi un quartino di solitudine, perché – prima o poi – c’è sempre qualcuno che lo incontra ‘casualmente’, gli fa gli occhi dolci, gli dice quanto è bello, bravo e simpatico. E infine prorompe nella supplica personale, condita dalla prece speranzosa: “Mi raccomando, Davidù, diccelo a Matteo!”. Sicché, per sgravare di tali pesi il sottosegretario, si potrebbe studiare una opportuna misura di salvaguardia: la sistemazione di una gigantesca buca delle lettere a piazza Politeama e accanto una segnaletica con titolo in maiuscolo: “DICCELOAMATTEO. Ps. Imbucare qui”.

E’ la Sicilia, innamorata del suo stesso appetito, della bici di Romano, dell’abbronzatura di Silvio. Una generazione di ulivisti pentiti rinverdì la passione delle due ruote con Prodi regnante. Al soffio della parola ‘Berlusconi’, cinema e piazze si riempivano di pance vuote, vezzeggiate dalla speranza. Fresche ragazze del popolo scoprivano tacchi e trucco, robusti ragazzotti di periferia indossavano doppiopetto e brillantina. Era la sagra cinica e tenera di quei poteri che – come ogni potere – ebbero il quasi esclusivo scopo di trasformare in cavalli alati somari abituati al basto, lasciando il meglio nel recinto del peggio.
Non sembrano diversi questi tempi, dal punto di vista della calca. Anche oggi, come allora, è tutto un brulicare di bandiere. Un affollamento di sogni, sopra un parcheggio abusivo.

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01 Marzo 2015, 06:00

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