Villa Sofia, medici in trincea | “Rischiamo ogni giorno”

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06 Maggio 2016, 13:31

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PALERMO- Povero medico del pronto soccorso palermitano. Quando gli va bene, tenta di curare i malati con ritmi affollatissimi da pizzeria. Quando gli va male, fronteggia energumeni di ogni risma. A Villa Sofia capita che ogni sera, intorno alle sette – come raccontano i protagonisti del terzo viaggio di LiveSicilia nelle aree d’emergenza cittadine – si presenti una sorta di ‘banda’ che pretende visite, esami e messe a punto, manco fossero dal meccanico. Lo conferma il manager dell’azienda ospedaliera Villa Sofia-Cervello, Gervasio Venuti, lasciando intendere che siano assai poco disposti ad accettare un diniego.

Povero medico, soldatino di stoppa in balia del fuoco e delle fiamme eruttati dai malati e dai loro parenti nel nosocomio intasato. Vengono tutti qui: talvolta per problemi importanti, talvolta saltellando allegramente, “perché ho un occhio un po’ appannato”. Ma vengono tutti qui e bersagliano il malcapitato di turno.

Eppure, Tiziana Maniscalchi, dottoressa del pronto soccorso di Villa Sofia, resiste e non solo lei. “Se si vuole svolgere il mio lavoro – dice – bisogna essere pronti a tutto, perfino a sopportare il rischio quotidiano. Teniamo la vita delle persone nelle nostre mani e raccogliamo tanta umanità, soprattutto di notte. Quando viene buio, l’ospedale diventa un luogo ancora più difficile da sopportare. Oltre al dolore fisico si sperimenta la solitudine”. Nel giro di dieci minuti sono piombati già sette ‘visitabili’ a chiedere aiuto, nel piazzale sostano quattro ambulanze. Benedetta Valpa controlla una sorta di reception dove si rivalutano i casi clinici, dopo una prima accoglienza al triage. La sua arma contro potenziali scalmanati è il sorriso: “Ci vuole solo un po’ di pazienza e le cose si aggiustano”. Si accede nella zona medica tramite una porticina sorvegliata da una mite figura con gli occhiali, in giacca e cravatta. Lo conoscono in tanti, a Palermo. E’ il cortese custode che smista il traffico dei degenti, contando su un indomito spirito da diplomatico.

E’ una giornata tranquilla. Le barelle nei corridoi non debordano. Su una lettiga, c’è un sacerdote, padre Pietro Chillemi, attaccato a una flebo. L’altro religioso che lo accompagna, Massimiliano Nobile, esprime una incredula e moderata soddisfazione: “Siamo stati trattati bene e con celerità. Ci hanno dato un codice giallo, abbiamo aspettato soltanto mezz’ora”. Inoltrandosi in corsia, ecco la sala-limbo di coloro che sono sospesi. Si deciderà se ricoverarli, tenerli in osservazione o dimetterli. La panoramica offre una decina di lettighe, popolate da anziani. Vincenza Ricci, ultima postazione in fondo a sinistra, rende merito a chi l’ha assistita: “Hanno compreso subito il problema e mi hanno curato. Ero stata al ‘Cervello’, lì ho perso solo tempo”. Quanto si attende nel limbo prima dell’eventuale destinazione a reparto? “Circa trenta-trentacinque ore”, risponde Baldassare Seidita, responsabile del dipartimento d’emergenza dei due ospedali riunificati in azienda: una media riscontrata altrove.

Il manager Venuti snocciola speranze e cifre: “Ci vorrebbe una maggiore integrazione con il territorio e stiamo lavorando per raggiungerla. Abbiamo importanti progetti di riqualificazione. Apriremo un secondo ingresso nel padiglione Biondo e avremo più spazio per convogliare lì i pazienti con minore urgenza, grazie anche a un collegamento con la struttura principale. Avremo una postazione dell’Asp e un software per la comunicazione e la gestione dei posti letto. Confidiamo che le assunzioni rendano possibile l’innesto di forze fresche. Il pronto soccorso logora e il turn-over è indispensabile. Siamo ben dimensionati, il punto è sempre il rapporto con ciò che sta all’esterno. Calcoliamo un flusso di circa centomila accessi all’anno, diecimila codici rossi, quarantamila gialli, quarantacinquemila verdi”.

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Per la precisione, nel 2015, sono stati 53 mila a Villa Sofia e 37 mila al ‘Cervello’. Una marea di gente. Com’è il morale della truppa? “Consideri le pressioni, i conflitti, le difficoltà, gli utenti che si lamentano delle lunghe attese…”, la replica del direttore Seidita è chiarissima. Le vicende riportate dalla cronaca sono note: la donna che picchia contro i vetri e sfascia la porta, perché le hanno assegnato ‘soltanto’ un codice verde, i familiari del cardiopatico defunto che distruggono ogni cosa. Tuttavia, i soldatini della sanità – invecchiati, malconci, disillusi, scottati dalle troppe incongruenze del sistema – sono sempre lì, al fronte di una disorganizzazione, di cui non hanno colpa, che produce malcontento.

In tanto caos, spicca qualcuno capace di mostrare gratitudine. Marcello, un signore attempato in giacca e cravatta che sorseggia un caffè, accanto al distributore delle merendine, e chiede che non si scriva il cognome, narra la sua storia: “Qui, qualche anno fa, è morto mio fratello; io serbo solo riconoscenza per i medici e gli infermieri. Quando hanno capito che non c’era più niente da fare, gli sono stati accanto, premurosi, come se fosse un loro congiunto e ne hanno alleviato le sofferenze fisiche e psicologiche. Lui è spirato lo stesso, ma non si è mai sentito solo”.

Le puntate precedenti:

Ospedale Civico

Ospedale Ingrassia

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06 Maggio 2016, 13:31

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