Villagrazia, delitto e mistero| C’è un “colpevole”, non il movente

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21 Aprile 2016, 16:28

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PALERMO – Ci sarebbe un colpevole, almeno così dicono gli esami scientifici, ma non tutto è stato chiarito. A cominciare dal mistero del movente. Perché sono stati uccisi Vincenzo Bontà e Giuseppe Vela? Che ruolo ha avuto la moglie di Carlo Gregoli, Adele Velardo, nel duplice omicidio di Villagrazia? A quest’ultima domanda si potrà rispondere con ulteriori perizie. A cominciare da quelle balistiche che, ricostruendo la traiettoria dei colpi, potrebbero dirci se a fare fuoco sia stata una sola pistola, quella impugnata da Gregoli, oppure se sia stata utilizzata anche un’altra arma.

Le accuse contro il geometra del Comune sono via via diventate granitiche. Contro di lui all’inizio c’erano le immagini di una telecamera che ha immortalato il passaggio della macchina su cui viaggiavano Bontà e Vela e subito dopo quella di Gregoli e di Adele Velardo. Poi, è arrivata la testimonianza di un passante. Un uomo che transitava in via Falsomiele nell’istante in cui il killer o i killer crivellavano di colpi le vittime. Ha dichiarato di avere visto sparare un uomo vestito con gli abiti poi trovati a Gregoli . Quindi è stata la volta della perizia sulla calibro 9, modello Tanfoglio Stock 2, sequestrata in casa dei coniugi. Si tratta, dicono i periti, dell’arma che ha lasciato le striature, un timbro, sulle cartucce usate per il delitto.

Oggi sappiamo pure che su uno dei tanti bossoli recuperati dagli agenti della Squadra mobile è rimasta una traccia organica di sudore, forse lasciata durante la fase di caricamento. Il Dna estratto è quello di Gregoli. Le sicurezze raggiunte dagli investigatori cozzano con i dubbi sollevati dal legale della difesa, l’avvocato Aldo Caruso. I periti da lui nominati definiscono strano che ci sia una traccia di sudore e nessuna impronta digitale.

Se davvero, come sostengono gli investigatori, è stato Gregoli a fare fuoco, resta da scoprire il movente. E qui la faccenda si complica. Gli inquirenti, coordinati dal pubblico ministero Sergio Demontis, scavano nelle viscere del quartiere palermitano. Finora hanno raccolto solo silenzi. Tantissime le persone ascoltate. Vivono a Villagrazia da decenni, come le vittime e i presunti assassini. Nessuno, però, sa nulla su possibili contrasti o motivi di risentimento che potrebbero avere scatenato la follia omicida. Ci deve essere una ragione più profonda degli screzi per i consumi idrici finora iporizzati. Forse interessi economici. Vecchie storie sopite, ma mai archiviate.

D’altra parte la recente inchiesta che ha colpito capi e gregari della cosca mafiosa del mandamento di Villagrazia-Santa Maria di Gesù ci ha consegnato una vicenda che sembrava sepolta nell’oblio. Il 28 ottobre 2013 le microspie captano una conversazione fra Mario Marchese, considerato il nuovo capo mandamento di Santa Maria di Gesù e morto alcuni giorni fa, e Antonino Pipitone. Pitipone raccontava di aveva pure interpellato Nino Bontà, padre di Vincenzo, da cui aveva appreso che dell’eredita di Stefano era rimasto davvero ben poco: “… gli hanno fottuto tutte cose”. Marchese conosceva un retroscena. Prima di essere ucciso nella guerra di mafia degli anni Ottanta il boss Stefano Bontade aveva seppellito una cassa piena di denaro e gioielli. Si era fatto aiutare da due suoi uomini fidati, Girolamo Mondino e Antonino Sorci, oggi detenuto: “Stefano… avieva fattu vruricari… na cassa china ri… china ri picciuli…”. Assassinato il boss, la moglie aveva reclamato ciò che le spettava. Solo che, così diceva Marchese, la cassa era stata recuperata e il contenuto diviso fra Mondino (“si pigghiò… mi sa si pigghiò…puru”), l’ergastolano Benedetto Capizzi (“… Iava dà puru pi Benedetto… agneddu e sucu e finiu u vattiu”) e il boss Ignazio Pullarà (“Ignazio la sa bene la discussione”).

Il racconto di Marchese trova riscontro nelle parole di uno storico pentito, Francesco Marino Mannoia, che ha raccontato del tentativo della moglie di Bontade, tramite il cognato Giovanni, di recuperare il tesoretto. Un tentativo vano. Giovanni Bontade era il suocero di Giovanni Bontà. L’unico legame fra Bontà e i Gregoli – sono gli stessi coniugi a metterlo a verbale – è un cugino in comune che di cognome fa Sorci. Nulla di concreto. Le parentele da sole sono solo suggestive. È inevitabile che gli investigatori seguano anche questa pista, mentre scavano nelle viscere di Villagrazia. Sono convinti che il bersaglio fosse Bontà, mentre Vela, di professione giardiniere, si sarebbe trovato nel posto sbagliato al momento sbagliato.

Nella borgata le indagini non si sono mai fermate. Il nome di Vincenzo Bontà non è mai emerso. Di lui è venuto fuori il ritratto di “un padre e un marito amorevole”. Perché allora tanta violenza? Se lo chiede chi ha conosciuto le vittime e se lo chiedono pure gli investigatori.

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21 Aprile 2016, 16:28

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