12 Maggio 2018, 16:59
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È di questi giorni la denuncia dei gravi fatti di violenza che si registrano negli ambienti sanitari dell’Isola (vedi “violenza contro medici e personale, il far west degli ospedali siciliani”, di Antonio Giordano, su Live Sicilia di venerdì 4 maggio). È davvero molto grave, poiché è in ospedale, dove il dolore dovrebbe essere lenito, che invece paradossalmente si riproduce e si amplifica.
Siamo davanti ad uno scenario che si è costruito gradualmente, ma inesorabilmente e con una certa, preoccupante, velocità. Al di là delle legittime denunce e di ogni forte richiamo all’ordine pubblico, il fenomeno va osservato criticamente, nel tentativo di trovare spiegazione e, possibilmente, intravedere soluzioni percorribili. Ciò che accade, curiosamente, è legato con un “filo rosso” ad un’altra emergenza della cronaca attuale che riguarda un ambito diverso, solo apparentemente distante: la violenza a scuola. I due ambiti hanno un dato che li accomuna: entrambi fanno parte del servizio pubblico. E qui, probabilmente, va ricercato il germe di un malessere così vistoso.
La stigmatizzazione di una società imbarbarita, involgarita, appiattita sui bisogni essenziali e, quindi, inferocita sulla base di propri istinti primordiali, richiede un’analisi che va spinta ancora più avanti, a partire dal significato stesso delle parole che usiamo. Le parole, infatti, hanno un senso sempre profondo, originario, autentico; se non sono oscure, chiariscono. “Servizio pubblico” è un’espressione di senso. Ma il senso va cercato o, forse, ri-cercato, rispolverato e rimesso in luce, qualora si stenti a riconoscerlo e vederlo in chiaro. Cosa significa “servizio”? Cosa “pubblico”? “Servizio” prevede una soluzione di continuità tra chi “serve” e chi “è servito”; questa linea di demarcazione però, lungi dall’essere considerata un fronte bellico, è, piuttosto, un punto d’incontro tra i due versanti.
La radice etimologica della parola è la stessa di “servo”, che richiama a generici padroni e che sa di servitù; ma è anche la stessa di “servitore”, che rimanda ai più alti concetti di “stato”, “patria”, “bene comune”. “Pubblico” sa di appartenenza, non di possesso. Ci siamo assuefatti ad una concezione esasperatamente personalista, avida e distorta di “bene”; ciò che è mio è “assolutamente” mio, sia che si tratti della mia auto o della mia casa, sia che si tratti del suolo dove vivo.
Ciò che invece è il tessuto connettivo del vivere civile, dalle strade, ai lampioni, ai cassonetti, alle norme di rispetto di chi mi sta accanto, non mi appartengono, non mi coinvolgono; non mi toccano. Sono padrone della mia libertà, libero, dunque, di disprezzare e perfino di distruggere, nell’anonimato e nella certezza dell’impunità. C’è che, negli ultimi decenni, un indirizzo economico comune ha realizzato la trasformazione dei servizi pubblici in aziende, tanto nel mondo della Sanità quanto in quello della Pubblica istruzione. È stata un’esigenza comprensibile a dettare nuove regole: la governance della materia deve necessariamente farsi i conti in tasca per consentire la sostenibilità di quei sistemi complessi che sono le scuole, gli ospedali, i servizi ambulatoriali, l’assistenza territoriale.
Ma ciò ha comportato lo spostamento del servizio pubblico da un’”economia del dono” verso un’”economia di mercato”, come direbbe l’antropologo Marcel Mauss, trasformando in “target” ciò che originariamente erano gli obiettivi della formazione e dell’assistenza sanitaria, e in “clienti” i destinatari di ogni servizio. Quest’operazione non è stata senza conseguenze: secondo un ritornello ben presente nel mondo del commercio, “il cliente ha sempre ragione”; senza nemmeno ragionarci troppo sopra, questo la gente l’ha appreso rapidamente e benissimo. C’è anche che, tanto nel mondo dell’istruzione quanto in quello della sanità, la preziosa materia trattata ha visto sempre di più il prevalere degli “oggetti” a spese dei “soggetti”: nelle corsie e negli ambulatori hanno acquistato sempre più peso le macchine (TAC, RMN, tutta la diagnostica di laboratorio, ecc.), le terapie oggettualizzate (i farmaci, i presìdi e gli ausili sanitari) e si sono perse di vista le persone, sia sul versante degli operatori quanto dei malati, in una generale “cosificazione” della salute, rendendo oggetto di scambio e di contrattazione la stessa salute, il benessere fisico, e trasformando in “quantità” ciò che originariamente era riconosciuto come “qualità”.
È così che il tradizionale rapporto tra medici e pazienti si è progressivamente allontanato dalle stanze dell’ascolto e del conforto, per somigliare sempre più ad un’attività commerciale. Nel mondo della scuola, poi, la cultura è diventata sempre più un oggetto, che ha via via perso significato e valore; nei modelli sociali dominanti, infatti, per riuscire nella vita occorre sempre più “apparire” e non “essere”, “mostrarsi” e non “divenire” sapienti, agire in superficie e non costruire una società nuova, che riesca a guardare il futuro sul fondamento delle proprie radici storiche e culturali. Ma c’è, soprattutto, la trasformazione genetica di tutti noi da soggetti delle umane relazioni a nodi di una rete di connessioni; i nostri contatti stanno allontanandosi dalla nostra umanità per portarci in un altro mondo, artificiale perché virtuale, irreale e senza concretezza, promettente ma illusorio.
Siamo monadi, isole di un arcipelago confuso e disumanizzante, con l’illusione di una fratellanza “social” che ci stacca sempre di più gli uni dagli altri, rendendoci, paradossalmente, sempre più voraci quanto maggiore è il benessere, sempre più feroci quanto più comodi i nostri spostamenti e agevoli i mezzi per avvicinarci, sempre più cannibali e aggressivi quanto maggiori sono le risorse disponibili affinché le relazioni sociali possano essere promosse. Il principio di autonomia dell’individuo, così prevalente nella sanità e nell’istruzione (si pensi alla legge sulle DAT*, alle sue luci e anche alle sue non poche ombre), coltiva l’obiettivo di amplificare al massimo l’indipendenza reciproca dei soggetti che fanno parte della società; la libertà è sempre più rivolta all’enfasi dell’individuo, della sua assoluta capacità di decidere per sé, senza condizionamenti.
Ma temiamo che l’esasperazione di questo concetto porti al graduale spegnersi del sentimento nobile della solidarietà, della necessità della partecipazione, dell’adesione al costruire insieme, fino a realizzare il danno più grave: la solitudine. È un prezzo molto alto, troppo, che non ci possiamo permettere. Il servizio pubblico lo ereditiamo da secoli di battaglie e di conquiste; stiamo forse correndo il rischio di dilapidare un bene grande, come scellerati e smemorati eredi di qualcosa che non si è mai conquistato. C’è, quindi, l’obbligo morale di continuare ad osservare attivamente una società che cambia, senza ammainare la bandiera dell’impegno sociale.
Non si tratta di abbandonarsi al pessimismo dell’odioso “si stava meglio quando si stava peggio”. Non si tratta nemmeno di coltivare un generico ottimismo primaverile, tutto rivolto ad un’estate che ci si immagina solo luce e colori, senza scottature e senza zanzare. Si tratta di riconoscere l’importanza delle proprie responsabilità, in modo disincantato ma determinato, senza lasciare che tutto scorra vicino a noi, ma senza di noi.
*Disposizioni Anticipate di Trattamento.
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12 Maggio 2018, 16:59