"Volevo liberare i miei figli" - Live Sicilia

“Volevo liberare i miei figli”

I bambini annegati a Gela
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3 min di lettura

Il mistero è negli occhi. Continui a scrutarli nella foto su Facebook. Sono
occhi in posa per la serenità. Non sembra lo sguardo di una donna che ha in
mente l’assassinio dei figli.
L’errore è nella prospettiva. Fissare occhi fissi  in una foto non conduce mai alla verità. Bisognerebbe scovarli altrove, in un secondo momento, gli sguardi che non sanno di essere guardati. E sorprenderli allora. E scovarli quando sono nudi.
Gli occhi sono di Vanessa Lo Porto. Vanessa è la donna che ha annegato i suoi
due bambini, di due e nove anni, nel mare di Gela. Le cronache riportano le
frasi smozzicate di una creatura tormentata dal disagio psichico. “Li ho uccisi
per liberarli”, avrebbe sussurrato Vanessa, mentre la sedavano, mentre la
bloccavano e la impasticcavano per difenderla dai suoi gesti e dalla sua
consapevolezza. Liberazione da chi, da cosa? Dall’autismo che aveva preso uno
dei due figli e minacciava anche l’altro. Sono informazioni incerte. Non si sa
fino a che punto arrivi la realtà e dove comincino le visioni di un’anima a
pezzi.
Gli occhi di Vanessa. Un azzurrino sperso. I cocci di un bicchiere in  frantumi. Occhi azzurri. Come il mare di Gela.
Il mistero è nel mistero di una maternità deformata e contorta. Annegare i
bambini per liberarli. Vanessa (forse) ha creduto che togliere la vita fosse come darla una seconda volta. Io ti ho regalato l’esistenza. Io te la strappo dalle mani,
quando diventa pesante, quando è atroce immaginare il tuo futuro, figlio mio.
Immaginarlo in una selva di mani ritratte e di occhi indifferenti che non ti
aiuteranno, quando la mamma non ci sarà più. Uccidere il figlio per prevenire
la catastrofe della fine della madre, per salvarlo dalla futura assenza di  colei che, sola, avrebbe potuto accordare amore alla malattia. E’ un’ipotesi del dolore.
L’autismo è un male che prende i piccoli uomini e li pialla e li spoglia di significati, fino a trasformarli in alberi. Le emozioni e tutto ciò che resta
di vivibile scorrono sotto la corteccia. Niente si vede da fuori, nulla si
coglie, se non labili increspature di ciò che cova dentro. E’ una questione di
occhi senza occhiali per scandagliare gli alberi in profondità e trovare – al
loro compimento – il bambino rapito, rinchiuso nel suo legno.
Vanessa ha preso uno dei bambini a scuola – raccontano le cronache – e con
l’altro si è diretto verso la spiaggia. Poi ha avuto inizio il suo tragico rito
di liberazione. E’ stata lei stessa a telefonare ai carabinieri: “Ho ucciso i
miei figli, venite”.
Le parole dei medici diagnosticano un chiaro disturbo che pare fosse ignoto
agli stessi familiari. In casi del genere si prescrivono pillole e gocce che
placano il gesto della follia, lo stroncano in superficie, lo moderano alla
radice. I matti sono come gli autistici. Sono alberi che hanno dentro tutto,
quel tutto che non si mostra oltre la barriera della corteccia. Servirebbero
altri sguardi e altri occhiali per capire. Sguardi più delle pillole. Ma noi
che camminiamo nel nostro tempo non abbiamo tempo. Non vogliamo, né possiamo fermarci. Perché ci sentiamo partecipi della stessa follia che allontaniamo, curandola. La temiamo.
E non sapremmo comunque leggerne i segni, oltre il legno, nel retro della corteccia.
Gli alberi non hanno occhi.


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