22 Febbraio 2015, 06:25
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E’ difficile uscire dallo Zen, se ci sei nato. Barriere più o meno visibili ti condannano alla residenza in eterno. Quando non è il malaffare a stringere la gola degli innocenti che pure lì abitano, sorge il giudizio senza remissione di peccato. Sei dello Zen, dunque sei sbagliato. Come una malattia incurabile. Come una sentenza scritta sulle tavole della legge.
E’ impossibile uscire dallo Zen, se non ci sei nato. Nella suggestione dei forestieri, l’associazione di idee precede sempre la parola. Zen, dunque malacarne, mafia, motorini rubati. Il sospetto che quella parte di Palermo sia davvero Palermo non sfiora la mente. Tutto sovrasta la percezione minacciosa di un califfato troppo vicino che, al posto delle bandiere nere, sventola i suoi cortili prigionieri, le sue dimore diroccate.
Ecco perché lo Zen – quartiere perduto, ma visitato a intermittenza dal lumicino di qualche speranza – è diventato il vero protagonista del terribile caso dell’omicidio di Aldo Naro, lasciando in sottofondo la pietà per la giovane vittima e la rabbia per il giovanissimo presunto assassino, dichiarato tale in un clima di incertezze che sarà valutato più compiutamente. Nel comunicarsi lutto e sgomento – con una certa dose di ipocrita morbosità – la città intorno si è mossa per luoghi comuni, celebrando il suo festival del pensiero precotto, già pensato, comodamente masticabile.
Si è ricercato subito un rassicurante simbolo onnicomprensivo del male. Prima, la discoteca, che evoca il vizio unito agli eccessi di quello che i bene informati chiamano ‘il difficile universo adolescenziale’. Come se tutti i ragazzi che ballano fossero potenziali sferratori di calcioni. Come se componessero una moltitudine di idioti appesi agli sms e non fossero – gli adolescenti – portatori di domande, urgenze e bellezza.
Lo Zen – ancora solo spazio fisico della tragedia – si manteneva al margine dell’esecrazione. C’era l’evenienza che fosse un universitario, un ipotetico compagno di Aldo Naro, l’autore del colpo mortale. Nel caso sarebbe stata immediatamente resa pubblica la bolla di scomunica per ‘i figli di papà’.
Infine, accolta da una sommessa, ma prorompente esclamazione di giubilo, è giunta la confessione – su cui gravano molti dubbi – del noto diciassettenne. Il corpo del povero Aldo e il calcio del suo presunto carnefice si sono dissolti. ‘Certo – pare perfino di sentirle le voci – solo dello Zen poteva essere. Certo, solo allo Zen poteva accadere’. Così, dal web alla strada, ha parlato l’univoca, auto-accreditata Palermo degli onesti che ha bisogno di condannare ciò che le appartiene, pur di fingere che le sia estraneo. E il festival dell’idea precotta ha raggiunto il suo culmine nell’individuazione del reo collettivo.
Naturalmente, lo Zen nella vicenda di Aldo c’entra, eccome. Ogni tragedia rappresenta una mescolanza del ‘terribile’ individuale unito al suo sfondo. Nessuno può negare quanto sia difficile vivere tra via Rocky Marciano e il resto del mondo e quali possano essere le conseguenze di paura e brutalità, di una condizione sempre denunciata e mai risolta. Eppure, nemmeno si dovrebbe dimenticare che il peso delle scelte singole rende singolarmente responsabile chi le compie, non per forza coloro che ne condividono il domicilio. Altrimenti si rischia un aggravio di afflizione e violenza. Il pensiero rimasticato edifica immancabilmente nuove barriere nel ghetto di tutti.
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22 Febbraio 2015, 06:25