28 Giugno 2014, 09:55
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“Live Sicilia” ha pubblicato lo scorso 24 giugno un articolo di analisi, critica, sulle Zone Franche Urbane dal titolo “Le Zone franche urbane e l’economia delle panelle”, a firma di Mario Centorrino.
L’autore evidenzia come le agevolazioni recentemente concesse dal Ministero dello Sviluppo economico in favore delle imprese localizzate nelle 44 Zone franche urbane delle regioni Convergenza si siano risolte nella consueta distribuzione “a pioggia” di aiuti, anche di importo modesto, in favore di piccoli esercizi commerciali. L’ennesima occasione persa – si legge ancora nell’articolo – per attuare “… una reindustrializzazione robusta di aree critiche” o per sostenere “… iniziative ad alto interesse di occupazione o con progetti di innovazione”.
L’autore, però, muove una critica di carattere ancor più generale alla misura, lanciando al lettore il seguente interrogativo: se appare comprensibile l’inserimento tra le aree interessate del quartiere Brancaccio di Palermo, che senso ha avuto, invece, inserire tra le Zone franche urbane interi capoluoghi come Messina, Palermo, Catania, Trapani, Enna o grossi comuni come Barcellona, Castelvertrano, Gela e Sciacca?
Il diritto di critica è, evidentemente, una prerogativa fondamentale in ogni paese democratico, così come il sapere ascoltare anche le opinioni di dissenso è atto di profonda intelligenza. La critica aiuta, da sempre, chi è chiamato a prendere decisioni importanti a indirizzare meglio le iniziative e i propri sforzi. A condizione, però, che la critica sia ragionata e, soprattutto, basata su argomentazioni solide. Ma, purtroppo, non è questo il caso.
Va innanzitutto rilevato che Zone franche rappresentano sempre porzioni del territorio comunale, caratterizzate da una presenza di residenti comunque non superiore al 30 per cento della popolazione complessiva del singolo comune. Pertanto, rientra nella Zona franca di Palermo la sola zona portuale, così come la Zona franca di Catania abbraccia il solo quartiere di Librino. Lo stesso dicasi, ovviamente, per gli altri capoluoghi e grossi comuni citati nell’articolo, nei quali la Zona franca interessa sempre una porzione limitata del territorio comunale.
In secondo luogo, si ritiene che un intervento agevolativo – alla stessa stregua di ogni altra iniziativa, pubblica o privata – debba essere valutato, ed eventualmente anche criticato, in relazione alla effettiva finalità che intende perseguire. Nella fattispecie, va ricordato che le zone franche urbane sono state introdotte dal legislatore nazionale al fine di “contrastare i fenomeni di esclusione sociale negli spazi urbani e favorire l’integrazione sociale e culturale delle popolazioni abitanti in circoscrizioni o quartieri delle città caratterizzati da degrado urbano e sociale” e che la stessa norma di legge individua, quali beneficiari degli aiuti, le imprese di “micro e piccola dimensione”. Come può, dunque, valutarsi una simile iniziativa sulla base dei (mancati) effetti in termini di reindustrializzazione di aree in crisi? Sarebbe come giudicare un intervento finalizzato al sostegno del reddito dei lavoratori in termini di incremento di spese in ricerca e sviluppo delle imprese. D’altro canto, il fatto che le agevolazioni de quo non avessero alcuna pretesa di attivare processi di reindustrializzazione appariva chiaro già dalla lettura del titolo dell’iniziativa, laddove si parla, appunto, di zone “urbane” e non di aree o agglomerati industriali.
Altrettanto sbagliato è denunciare la ipotizzata bassa presenza di imprese innovative negli elenchi dei beneficiari, dal momento che alla misura – finalizzata, come detto, alla rivitalizzazione economica e sociale di aree urbane disagiate attraverso il riconoscimento, in quei luoghi, di una fiscalità di vantaggio – non era richiesta, dalla stessa legge istitutiva, alcuna “selettività”, se non quella riferita alla mera localizzazione dell’iniziativa economica entro i confini individuati dal CIPE.
Invece, proprio gli elementi tanto criticati nell’articolo, ossia la distribuzione di agevolazioni di importo modesto (intorno ai 30.000 euro per impresa) in favore di piccole aziende ed esercizi commerciali, la concentrazione delle agevolazioni in aree urbane e non industriali, testimoniano, il successo della misura, almeno in termini di raggiungimento dei soggetti e delle aree target.
Ciò detto, è altrettanto evidente che, per apprezzare l’impatto dell’intervento rispetto agli obiettivi fissati dal legislatore (lotta al degrado urbano, inclusione sociale e culturale, ecc.) occorrerà attendere qualche anno. In tal senso, sarà cura del Ministero monitorare attentamente, nel corso dei prossimi anni, le dinamiche economiche e sociali in quei territori, anche con riferimento all’andamento di quegli stessi indicatori statistici utilizzati dal CIPE per la selezione delle aree (tasso di disoccupazione, tasso di occupazione, tasso di concentrazione giovanile e tasso di scolarizzazione), al fine di valutare la reale efficacia della misura.
Ancora una volta, però, si è preferito piegarsi alla facile retorica, cavalcare l’onda del disfattismo, sempre più di moda in Italia, sparare contro il facile bersaglio di un’Amministrazione sempre e comunque inefficiente e rinunciando, a priori, a qualsiasi (doveroso) approfondimento della materia. E proprio approfondendo meglio la materia si sarebbero, forse, potuti notare i tempi rapidi di attuazione dell’intervento (a distanza di poco più di anno dalla legge di conversione del decreto-legge che ha previsto il finanziamento delle agevolazioni nelle Zfu delle regioni Convergenza sono state concesse agevolazioni in tutte le 44 zone franche urbane previste dalla legge, in favore di ben 20.300 imprese, per complessivi 518 milioni di euro).
Così come si sarebbe potuto apprezzare la particolare governace della misura, che ha evidenziato una virtuosa e fattiva collaborazione tra Amministrazione centrale, regioni e comuni. O, ancora, le 10 mila e più richieste di informazioni e di supporto evase, in pochi mesi, dal servizio di contact center attivato dal Ministero.
Purtroppo, però, un’analisi realmente critica (nella migliore accezione del termine) costa tempo e fatica e, spesso, la tentazione di percorrere la via più facile, di “sparare” il titolo a sensazione contando sul malcontento popolare, è davvero troppo forte.
(Simona Vicari è Sottosegretario al Ministero dello Sviluppo economico)
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28 Giugno 2014, 09:55