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Caro Assessore le scrivo…

La lettera a Russo
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Caro Assessore, Massimo Russo. Non siamo fortunati. Io ci provo a farmela piacere la sua sanità. Mi metto sempre con una disposizione d’animo bonaria. Faccio gli occhi dolce pure al canuzzo regolamentare che staziona sulla porta degli ospedali. Sorrido persino al display che indica i tempi di attesa. Ogni volta – dannazione! – accade qualcosa che incenerisce le mie migliori intenzioni. Forse la sua sanità ancora non funziona a puntino. Forse è colpa mia, della mia psiche: ci deve essere una patologia cuffariforme acquattata nell’ombra. Andrò dallo psicologo dell’Asl.

Le racconto una storia, Caro Assessore. Stamattina mia madre si sveglia con un problema. Il medico amico consiglia una visita al pronto soccorso. Ci armiamo e partiamo. All’ingresso c’è un ragazzo, con una maglietta blu. Gli chiediamo cortesemente come comportarci. E lui risponde: “Aviti a fare u triagge”. Bene. Dalle mosse, più che dall’idioma comprendiamo che si tratta di aspettare (sono circa le undici) che qualcuno affronti la situazione. C’è dolore fisico, ma noi siamo utenti modello. E gli spasmi sono abbastanza tollerabili.

Caro Assessore, la sua sanità è come un libro giallo. Le emozioni non mancano. Cucù, al triage non c’è nessuno. Perché? Un sant’uomo (veramente cordiale e amichevole e non è uno scherzo) con la pettorina di guardiano sbuffa: “Si iu a fumari u sicarru”. Ma non c’è un altro, un facente funzione, uno che non fuma? “No, sono impegnati. C’è chi è in ferie”. Un portantino sindacalizza: “Un c’amu a gghiri in ferie?”. Certamente, sì. Un altro signore entra circospetto: “Guardi, ho problemi di respirazione. Un medico c’è?”. L’omone calmo con la pettorina rassicura: “Tra un po’ arriva qualcuno”. In effetti, piomba una signora col camice blu, la capigliatura alla Erinni, e prorompe nel suo grido di guerra rivolto ai malati e agli accompagnatori: “Chi fa?! Minnivaiu!!!!?” (l’ha urlato tutto attaccato). Cazziatone furibondo al guardiano: “Picchi i facisti trasiri? Fuoriiii!!!”. Il ragazzo assiso a titolo ignoto all’ingresso mastica una cicca. E sorride. Una paziente perde la pazienza: “Ora fazzu a’ pazza. E viremu!”. Nessuno si scompone. Saranno abituati alla pazzia.

Entriamo nel triage, dopo trenta minuti. Cosa si sente? Come sta? Mia madre declina con sofferenza le proprie generalità. Non le prendono la pressione. Non la palpano nel punto dolente. Non la visitano.  Tra cabala e statistica, decidono di assegnarle un codice verde. Il codice verde è una condanna. Non è il bianco che ti assolve. Non è il giallo che mette premura. E’ l’indistinto della prestazione “differibile”. Uno sta male? Pazienza paziente, pazienza. Nel frattempo, il display, per beffa, spiega come dovrebbe funzionare un pronto soccorso. Le ore passano. Molti se ne vanno, stremati.  Sarà questo il fine da raggiungere? Mia madre è sempre là, ora che sono le tre del pomeriggio, e non la visiteranno – dicono – prima di altre tre ore. Caro Assessore, il nome dell’ospedale glielo dirò a voce, in privato, se vorrà. Non si sa mai.

Ps. Intendiamoci. Mia madre è una timorata professoressa di Lettere in pensione. Mica un’estremista.  Ha un figlio scapestrato che esercita una professione ribalda, d’accordo. Tuttavia per lei prova simpatia e incondizionata fiducia, Caro Assessore Russo. Vota a sinistra.  E’ convinta che ci sia del buono nel suo impegno,  nonostante lo scorso anno, di questi tempi, abbia visto morire un figlio su una barella perché non c’erano letti liberi. Solo l’umanità speciale e la competenza dei medici hanno accompagnato con dolcezza quell’evento terribile. Sono gli stessi medici, Assessore, che lei critica troppo spesso, quando avrebbero diritto a un monumento equestre.

Prima del congedo, mia madre mi ha sussurrato: “Se senti l’Assessore, chiedigli di osare una nuova esperienza. Si travesta da semplice cittadino, con un paio di baffi finti. E verifichi il funzionamento degli ospedali. Di persona”. A una mamma non si dice di no. Le giro la proposta. Buona fortuna, Caro Assessore Russo.


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