Omicidio Di Bona, l'articolo |che ha fatto riaprire l'inchiesta - Live Sicilia

Omicidio Di Bona, l’articolo |che ha fatto riaprire l’inchiesta

L'inchiesta sull'omicidio Di Bona è stata riaperta grazie a un articolo di Riccardo Lo Verso per "S". Eccolo.

L'approfondimento
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L’inchiesta sull’omicidio Di Bona è stata riaperta grazie a un articolo di Riccardo Lo Verso per “S”. Eccolo.

È una storia in bianco e nero. Come le foto che i figli di Calogero Di Bona conservano nell’album dei ricordi. Gli unici di un padre che non c’è più. Che non c’è mai stato. Di Bona, maresciallo delle guardie penitenziarie del carcere Ucciardone, scompare una sera di fine agosto del 1979. Aveva 35 anni e tre figli che non avrebbe visto crescere.
Sono stati proprio i figli, oggi, ad avere chiesto la riapertura dell’inchiesta sulla morte del padre. Lo hanno fatto scovando su Internet, per caso, le dichiarazioni del pentito Gaspare Mutolo e rivolgendosi agli avvocati Oriana ed Emanuele Limuti che hanno presentato l’istanza in Procura.
Quelle di Mutolo, killer al soldo di Totò Rina e Saro Riccobono, non sono dichiarazioni nuove. Le ha rese il 7 giugno 1994, ma nuovo è il suo utilizzo in questa indagine. Mutolo chiama in causa Salvatore Lo Piccolo, che di Riccobono, boss di Partanna Mondello, era stato l’autista. Il capomafia di San Lorenzo non era ancora il potente padrino dei giorni nostri, ma la sua ascesa inizia in quegli anni. Anni in cui avrebbe avuto un ruolo, a giudicare dalle parole del pentito, nella lupara bianca che ha inghiottito Calogero Di Bona, vicecapo dei secondini dell’Ucciardone, come li chiamavano un tempo.
Partiamo dall’inizio. Dal bianco e nero delle foto di famiglia. Di Bona finisce il turno di lavoro. Torna a casa. Ad aspettarlo ci sono la moglie, Rosa Cracchiolo, e i suoi tre figli. Pranzano assieme. Poi, il padre, come sua abitudine, si ritira in camera per riposare. Nel pomeriggio accompagna la famiglia a casa di alcuni parenti. “Passo a prendervi per cena”, dice alla moglie. E così quando la donna non lo vede rientrare si preoccupa. L’ansia diventa angoscia. Lo cercano a Sferracavallo, nei posti che era abituato a frequentare. Niente. Di lui non c’è traccia. L’ultima informazione lo individua all’interno di un bar. Poi, il nulla. Vengono allertati poliziotti e carabinieri. Alle sei del mattino successivo una pattuglia di militari trova la sua auto, una Fiat 500, parcheggiata in via dei Nebrodi, all’incrocio con via Alcide De Gasperi. Gli sportelli sono aperti. Per uno come Di Bona che ama tirare a lucido la macchina è un particolare inquietante. Non l’avrebbe lasciata mai incustodita. La Procura apre un’inchiesta. Contro ignoti, naturalmente. Due anni di indagini che a nulla approdano. E così, l’allora giudice istruttore Rocco Chinnici, il 5 marzo del 1981, è costretto a chiudere il caso. Non ci sono colpevoli nella vicenda Di Bona che però, lo scrive di suo pugno il giudice poi assassinato dalla mafia, “è elemento ligio al dovere e perciò inviso alla criminalità comune e organizzata. Non potè essere ucciso per ragioni private. La morte deve essere ricercata nei fatti strettamente collegati alla sua attività all’interno della casa circondariale. La riprova di ciò si ritrova nelle modalità di esecuzione del crimine, modalità tipicamente mafiose”.
Quali erano i fatti avvenuti all’Ucciardone? La ricostruzione parte da qui. Qualche giorno dopo la scomparsa in Procura giunge un esposto anonimo. O meglio, a firmarlo è un gruppo di agenti di polizia penitenziaria. L’esposto traccia lo scenario di un carcere dove i mafiosi fanno i loro comodi. Protetti dalla compiacenza di alcuni agenti. Sono anni in cui basta solo nominare un padrino per far tremare le celle. “Carcere di mafia” scrivono gli agenti che fanno un nome e cognome: Michele Micalizzi. Micalizzi, 30 anni, di Pallavicino, non è l’ultimo arrivato. Intanto è genero di Riccobono e sta pure scontando 24 anni per l’omicidio dell’agente Cappiello, ucciso il 2 luglio del 1975. Micalizzi, scrivono gli agenti, sarebbe l’autore del pestaggio di un collega, tale Angiullo, avvenuto all’interno del carcere. Un fatto gravissimo che, però, gli procura una punizione labile: sei giorni di rigore, per altro scontati in infermeria. C’è di più. Del pestaggio e della punizione non si fa menzione nel registro del carcere. Insomma, non è stato fatto rapporto. Perché? Forse perché Micalizzi attende che si concluda il processo d’appello per omicidio che lo vede imputato e i termini di custodia cautelare stanno per scadere. L’episodio del pestaggio avrebbe potuto “trattenerlo” in carcere. Nei giorni successivi al pestaggio, il sostituto procuratore Giuseppe Prinzivalli ascolta tutti coloro che sono coinvolti nella vicenda. Di Bona compreso. Le indagini, però, si chiudono con un nulla di fatto.
Passano gli anni e i pentiti riempiono i verbali. Del vice capo delle guardie dell’Ucciardone, però, non si hanno notizie. Nel giugno del 1994, nel carcere romano di Rebibbia, si celebra un’udienza del processo a Bruno Contrada, l’ex capo dei servizi segreti successivamente condannato. Il pubblico ministero Antonio Ingroia sta interrogando Gaspare Mutolo, davanti alla quinta sezione del tribunale di Palermo, presiduto da Francesco Ingargiola, in trasferta nella capitale. Gli chiede di Rosario Riccobono e lui descrive il boss come “una persona normalissima, camminava tutti i giorni con la macchina, si spostava da un punto all’altro, faceva i suoi affari… sempre latitante…. aveva un villino che si è costruito a Barcarello”. Tra un racconto e l’altro tira in ballo Salvatore Lo Piccolo: “Con un certo Totuccio Lo Piccolo, prima di arrestarmi nel ’76, ci abbiamo fatto un favore a un certo Megna, che aveva un deposito di bibite… Dopo io so, nell’81, in un discorso che io c’ho con Riccobono per altri discorsi, di un omicidio di un certo Di Bona, il maresciallo degli agenti di custodia, che Salvatore Lo Piccolo se lo va a prendere”. L’appuntamento, racconta Mutolo, è all’interno di un notissimo ristorante a Sferracavallo, il cui proprietario era uno che “si è messo a disposizione… e quindi non ha preoccupazione se questa persona viene interrogata e dire: sì il maresciallo andò via con Lo Piccolo insomma”. Si fidano di lui. Su Lo Piccolo aggiunge che “era uomo d’onore della famiglia di Tommaso Natale, era sottocapo di Lino Spatola (anche lui poi inghiottito dalla lupara bianca ndr) era anche lui latitante, insomma, in quel periodo latitante, però ancora questo è latitante”. Lo Piccolo sarebbe rimasto alla macchia per venticinque anni fino al 2007, quando i poliziotti della sezione Catturandi della Squadra mobile lo arrestarono nel covo di Giardinello.
I primi ad accorgersi del verbale di Mutolo sono i familiari di Di Bona. Il figlio Giuseppe, a quel punto, ha poco più dell’età che aveva il padre quando è scomparso. Sta navigando su internet e digita il nome di papà in un motore di ricerca “e spunta il passaggio delle parole di Mutolo. È stato l’input che ci ha fatto rivolgere ad un legale”. “Se c’è una strada investigativa deve essere percorsa – aggiunge il fratello Ivan, di poco più giovane -. Il vuoto investigativo, le tenebre come le chiamo io, sono mortificanti. Speriamo che si possa fare chiarezza. Trovare un colpevole per la morte di nostro padre sarebbe per noi un grande aiuto psicologico”.
L’aiuto, fino ad oggi, per i fratelli Di Bona si è concretizzato nel posto di lavoro che è stato dato loro quali figli di una vittima del dovere. È già tanto, ma non può bastare: “Mia madre ci è stata sempre vicino, ma l’assenza di un padre si sente. Siamo cresciuti nel profondo rispetto delle istituzioni e della giustizia. Ci saremmo aspettati, però, che qualcuno facesse qualcosa. Ci attendiamo ancora che qualcuno faccia qualcosa”. I fratelli Di Bona raccontano anni difficili segnati dalla diffidenza di “parenti che ci tenevano lontano, ci facevano una colpa della scomparsa di papà. Per anni siamo stati i figghi di Lino, quello che spiriu”. Parlano di colleghi che si sono via via allontanati, “solo in pochi, si contano sulle dita di una mano, ci sono rimasti vicini. Grazie a loro e alle parole di nostra madre, papà non è rimasto solo un volto immortalato negli scatti fotografici”. Gli hanno raccontato la storia di “un gentiluomo che indossava la divisa e pretendeva che i colleghi la rispettassero. A cominciare dalla camicia, sempre in ordine. Di un giovanotto che il giorno del fidanzamento fece arrivare alla sua futura moglie, nostra madre, un fascio di 150 rose rosse. Di un uomo di cui lo Stato per troppo tempo si è dimenticato. Solo di recente gli è stato intitolata un’ala del carcere dell’Ucciardone”.
Le indagini sono ripartite. “Speriamo che arrivino ad una conclusione positiva – dice Giuseppe – per mio padre e per tutti gli uomini ammazzati dalla mafia. Come Rocco Chinnici. Lui e papà erano amici. Il nostro pensiero va a lui e ai suoi familiari. Lo scriva per favore”.

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