Beatificazione di Rosario Livatino, i vescovi: "Non possiamo più tacere" - Live Sicilia

Beatificazione di Rosario Livatino, i vescovi: “Non possiamo più tacere”

Domenica la cerimonia.
IL MESSAGGIO
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6 min di lettura

PALERMO- Il messaggio dei vescovi siciliani che pubblichiamo integralmente:
in occasione della Beatificazione di Rosario Angelo Livatino
Amati figli e figlie delle Chiese di Sicilia, il Signore ha benedetto ancora questa nostra terra!
L’ha benedetta in uno di noi, cresciuto in una comunissima famiglia delle nostre e in
una delle nostre città, dove ha respirato il profumo della dignità e dove ha appreso il
senso del dovere, il valore dell’onestà e l’audacia della responsabilità.
L’ha benedetta nella sua giovinezza, che la forza della fede e gli ideali del Vangelo
hanno trasfigurato di una bellezza straordinaria, impregnandola di amore per il bene
comune, di passione per la verità e di sete della giustizia. L’ha benedetta nella sua professione di magistrato, esercitata coraggiosamente come
missione laicale al servizio del Regno e della Storia, tanto dentro le aule pubbliche dei
tribunali quanto nei meandri più nascosti del cuore umano, che egli ha saputo
attraversare con discrezione e fermezza per garantire la difesa della legalità e tentare
finanche la redenzione di chi ha avuto l’ardire di infrangerla.

“Il Signore ha benedetto questa terra”


L’ha benedetta nella testimonianza del suo martirio, con cui egli ha seguito fino in fondo
le orme del Maestro che, «avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò fino alla fine»
(Gv 13,1). Il 21 settembre del ’90 segna infatti il momento culminante di un cammino che
coincide con la sua stessa vita e che procede decisamente nello stile della Pasqua: un
cammino in cui la logica dello “scambio”, propria del clientelismo che rende schiavi dei
poteri forti di turno, è soppiantata — passo dopo passo — da quella del “dono”, che si
compie nella gratuità incondizionata attraverso il passaggio obbligato della croce.
Oggi il Signore ha benedetto ancora questa nostra terra nella sua beatificazione, con
la quale offre a noi e a tutti un modello nuovo e dirompente di santità: un modello insolito,
che aggiunge ai canoni tradizionali del concetto di santità i connotati dei «santi della
porta accanto», con la loro attualità e la loro concretezza, ma soprattutto con l’originalità
della loro specifica missione, vissuta coerentemente per diventare più umani in se stessi e
più fecondi per il mondo .
Dal Beato Rosario Livatino, consegnato oggi alla storia come il primo magistrato laico martire
in odium fidei, impariamo che la santità ci appartiene in forza del battesimo e che siamo
chiamati a declinarla in qualsiasi modalità, con qualsiasi mezzo a nostra disposizione, per
arrivare dovunque ci sia un residuo di umanità che attende di essere raggiunto e riscattato.
Dal Beato Rosario Livatino, annoverato oggi insieme al Beato Pino Puglisi nella lunga
schiera di profeti e martiri del nostro tempo e della nostra terra, impariamo che la santità
ha il sapore della speranza che non si arrende, della coerenza che non si piega e
dell’impegno che non si tira indietro, perché ogni angolo buio del mondo — compreso il
nostro — abbia l’opportunità di rialzarsi e guardare lontano.
Già nella lettera che vi abbiamo indirizzato in questo stesso giorno di tre anni fa, nel
venticinquesimo anniversario dello storico appello lanciato da San Giovanni Paolo II alla
Valle dei Tempi di Agrigento, abbiamo accostato il Parroco Puglisi e il Giudice Livatino,
indicandoli come «testimoni esemplari della conversione dalle parole ai fatti che deve
avvenire in seno alla Chiesa» .

Oggi — potendo accostare le due figure non solo nella memoria della nostra terra, ma anche nella venerazione del nostro popolo — intendiamo
ribadire l’urgenza di questa conversione, quale eredità congiunta che essi ci consegnano.
È l’eredità di chi ha trovato il coraggio della libertà, squarciando il silenzio della connivenza
e decidendo di parlare chiaramente, non solo con parole tecniche mutuate dai linguaggi
umani, ma soprattutto con la parola del Vangelo. Con questo tratto che li ha accomunati,
pur nella diversità del loro stato di vita e nella specificità del loro ambito di azione, i due Beati
Martiri — il Parroco e il Giudice — hanno parlato senza mezzi termini delle mafie e alle mafie. E
così hanno contribuito ad avviare il processo di riformulazione del discorso ecclesiale sulle
organizzazioni di stampo mafioso, ma anche di quello rivolto direttamente agli uomini e alle
donne che vi aderiscono: processo che il “grido del cuore” di Giovanni Paolo II ha poi
formalmente fondato, come abbiamo scritto nella lettera del 2018.

“Tacere è la prima strategia del male”


Questi due discorsi non si possono interrompere né si possono disgiungere. Non si
possono interrompere, perché tacere è la prima strategia del male. Ce lo insegna la storia
della nostra Isola, troppo spesso macchiata di sangue innocente proprio a causa dei
silenzi di chi avrebbe dovuto parlare e invece ha taciuto; ma ce lo insegna, in fondo,
l’intera storia umana, a partire dalla voce del sangue di Abele che grida a Dio dal suolo,
mentre Caino continua a far finta di non sapere dove sia suo fratello (cf. Gen 4,9-10). I
due discorsi, inoltre, non si possono disgiungere. Limitarsi a parlare di mafia senza tentare
di raggiungere i mafiosi rischia di ridursi alla condanna e alla presa di distanza, che sono
necessarie ma non bastano; d’altro canto, spingersi a parlare con i mafiosi senza una
riflessione seria e comunitaria sulla mafia rischia di esporre al suo fascino ammaliante e al
suo potere manipolatore. Per questo nella lettera del 2018 abbiamo segnalato che, oltre a «prendere le distanze
dal “silenzio”» occorre dare al discorso ecclesiale sulle mafie il suo «timbro peculiare», per
evitare di renderlo «più descrittivo che profetico» . Ecco l’eredità di Livatino, di Puglisi e di
innumerevoli altri fratelli e sorelle, che non saranno mai elevati agli onori degli altari, ma
che hanno scritto pagine indelebili di storia ecclesiale e civile, anche ai nostri giorni e
anche nella nostra Sicilia!

“Le nostre chiese non all’altezza dell’eredità”


Purtroppo dobbiamo riconoscere che, al di là di alcune lodevoli iniziative più o meno
circoscritte, le nostre Chiese non sono ancora all’altezza di tale eredità.
Il 19 aprile 1992, tra l’omicidio del Giudice Livatino e la visita del Papa, mentre in tutta la
Sicilia si consumavano i più efferati delitti di mafia, la Chiesa Agrigentina ha pubblicato il
documento Emergenza mafia. Un problema pastorale, a firma del Consiglio Pastorale
Diocesano. Dopo una ricostruzione storica volta a individuare i due aspetti complementari
del fenomeno — l’organizzazione criminale e la diffusa mentalità — il documento passava
in rassegna la responsabilità personale e collettiva del silenzio e della connivenza, i segnali
per riconoscere la mentalità mafiosa come pratica disumana e antievangelica e il
dovere della testimonianza e della profezia nella comunità cristiana oggi.

“Non possiamo più tacere”


Da questa consapevolezza dobbiamo ripartire, considerando che in questi trent’anni
tante cose sono cambiate, ma non sono ancora cambiate abbastanza. Se sembra finito
il tempo del grande clamore con cui la mafia agiva nelle strade e nelle piazze delle
nostre città, è certo che essa ha trovato altre forme — meno appariscenti e per questo
anche più pericolose — per infiltrarsi nei vari ambiti della convivenza umana, continuando
a destabilizzare gli equilibri sociali e a confondere le coscienze.
Di fronte a tutto questo non possiamo più tacere, ma dobbiamo alzare la voce e unire
alle parole i fatti: non da soli ma insieme, non con iniziative estemporanee ma con azioni
sistematiche. Solo così il sangue dei Martiri non sarà stato versato invano e potrà
fecondare la nostra storia, rendendola, per tutti e per sempre, storia di salvezza.
Agrigento, 9 maggio 202

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