A casa di Agostino, il disperato | La tragedia di un uomo tranquillo

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29 Luglio 2011, 13:29

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TERMINI IMERESE. I muri parlano dappertutto, anche in via Navarra a Termini Imerese, nel fruscio del terribile già accaduto. Parlano con i colori più che con le scritte. Sul fianco della palazzina, a due passi dal citofono con la targhetta “Bova-Corallo”, qualcuno ha stampato con lo spray: “Buongiorno principessa”. Tono verde squillante sulla tristezza di uno sbuffo salmone di tinteggiatura. Appresso: “Piccola stella senza cielo”. Un monito tutto nero.
Al terzo piano si è consumata la tragedia di un uomo che descrivono tranquillo e dei suoi cari. Il maresciallo Bartolotta, pensionato dell’Arma, è il protagonista mediaticamente rilevante. E’ stato lui ad accorrere per primo sulla scena del delitto, nel teatro della follia omicida di Agostino Bova, l’ex operaio Fiat, licenziato dallo stabilimento, che ieri, intorno alle tre del pomeriggio, ha ucciso la moglie, ha ferito la figlia e si è ammazzato. “Sto al secondo piano – racconta ancora il signor Bartolotta, baffi bianchi da carabiniere buono -. Mi ha chiamato un parente di Agostino che sta al quarto… Inutile che guarda, sono a Palermo, in ospedale. Le dicevo: sono salito di corsa al terzo. Sul pianerottolo c’era la figlia che si lamentava. La porta era spalancata. Si vedeva una lunga scia di sangue. Ho suonato, aspettando la reazione di qualcuno. Niente. Sono entrato. Marito e moglie erano immobili, stretti l’uno contro l’altra. Agostino si è sparato a pochi centimetri da lei. Non ho visto l’arma. Ecco, è successo lassù”.

L’indice del maresciallo si solleva verso il terzo piano della palazzina color salmone. Serrande abbassate. Tre vasi vuoti sulla ringhiera. “Che idea mi sono fatto? Mica è facile, amico mio. Agostino Bova era un tranquillo. Era sempre in garage per qualche piccolo lavoretto. Con le mani non stava mai fermo”. Solo, nel cono di un garage, mentre le dita compongono forme, verniciano, ritagliano, attaccano. Questo sai fare, sei un operaio della Fiat, un addetto alla verniciatura. Anzi, lo eri. Ti hanno licenziato per una mancanza. “Siamo troppo stressati – il maresciallo si congeda – i soldi sono la nostra maledizione. E quando non ci sono più… Sa quante spese per il condominio”. La scritta sul verde nel muro è un bruciore degli occhi. Ma non è nulla se la paragoni al mare intenso di Termini. Ci vai a sbattere mentre esci da via Navarra, come se fosse un altro muro altissimo. Una parete blu.

Termini Imerese ha sputato sul suo mare e sulla sua bellezza, per inseguire il sogno dell’industria. La visione che adesso la sta condannando. Ecco la strada per l’area industriale segnalata da un rettangolo di ruggine che somiglia alla cartellonistica di uscita dal Paradiso terrestre. Sono stati pubblicati centinaia di speciali a pagamento sui giornali per cantarsela e suonarsela. L’Eldorado della Fiat. Scatti di tute blu sorridenti all’uscita, come l’orchestrina del Titanic o i momenti aggregativi dei campi di concentramento. Operai con “La Stampa” al braccio, il gazzettino dell’impero dell’avvocato Agnelli. E giù chilometri di analisi sulla scintillante fabbrica, sulla “cattedrale nel deserto” edificata da un ingegno pio per portare la frontiera del benessere nella Sicilia stracciona. L’archivio delle illusioni è già appassito. Il sentiero per l’incubo è largo. Il mare costeggia. Ti guarda col silenzio di un amore spezzato. E’ un paesaggio lancinante. La Fiat è una cittadella morta. Un cassonetto reclinato dà l’idea di una vecchia sentinella addormentata per lo sfinimento di una veglia inutile.

Dieci anni fa, qui, al cambio di turno, c’era il carretto del gelataio. C’era la macchina del panino con le panelle e crocché. Si intervistavano gli operai che progettavano il domani al sicuro nella fortezza del progresso. E vagheggiavano: “Vorrei che mio figlio un giorno lavorasse qui”. La tuta blu Bova lavorava qui. Ora c’è un cassonetto di immondizia e malinconia. Ci sono sacchetti che svolazzano vicino al cancello, protetto da un nastro bianco e rosso, come per delimitare il perimetro del crimine. Oltre le grate, parrebbe di scorgere un tizio in bicicletta. Probabilmente un fantasma. Profili di auto senza targa splendono al sole.
Agostino Bova è stato un fantasma con uno straccio di corpo e una voce fioca, prima di diventarlo davvero. Il suo garage non l’ha salvato dal diluvio. La sua vita si è frantumata sulla normalità del tempo presente. Sarà dimenticato. Nemmeno quando respirava era uno che si lasciava ricordare troppo, come tanti, come tutti. Il fruttivendolo nei pressi di via Navarra offre una memoria a tratti. E’ la descrizione di un’ombra: “Lo conoscevo di vista. Sembrava una persona perbene”.

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29 Luglio 2011, 13:29

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