16 Settembre 2018, 13:18
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PALERMO – Per anni ha regnato il silenzio, anche quello della Chiesa, di fronte al potere dei boss. Poi, venne il giorno “dell’omelia di Sagunto”.
Era il 4 settembre del 1982, nella basilica di San Domenico, davanti alla bara del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e della moglie Emanuela Setti Carraro, il cardinale Salvatore Pappalardo tuonò ripetendo le parole di Tito Livio: “Mentre a Roma si pensa sul da fare, la città di Sagunto viene espugnata dai nemici. E questa volta non è Sagunto ma Palermo. Povera Palermo”. Ad ascoltarlo c’erano il Capo dello Stato, Sandro Pertini, e il presidente del Consiglio Giovanni Spadolini. Quelle parole furono molto più di un atto di coraggio, tracciarono una strada. La Chiesa si schierava dalla parte giusta.
Eppure quell’omelia non mise Pappalardo al riparo dalle polemiche e dalle critiche. Qualcuno avrebbe fatto notare, negli anni a venire, che la parola mafia era sempre meno presente nei discorsi di un cardinale convinto che non si dovesse sempre e comunque parlare di mafia. Per alcuni era addirittura il segno di una retromarcia. Le polemiche si ripresentarono nei giorni in cui Pappalardo celebrava il funerale di Pino Puglisi. Era stato il cardinale a volerlo al Centro diocesano per le vocazioni e poi ad affidargli la parrocchia di San Gaetano a Brancaccio, eppure quando la mafia uccideva padre Puglisi Pappalardo era la guida della Chiesa di Palermo che, secondo i fratelli del sacerdote e alcuni suoi stretti collaboratori, così come lo Stato, “lo aveva lasciato solo” non dando il peso necessario alle minacce subite. Di certo c’è un prima e un dopo nella Chiesa palermitana e il confine è segnato dall'”omelia di Sagunto”.
Pochi mesi prima che assassinassero Puglisi, Karol Wojtila lanciava l’anatema contro la mafia dalla Valle dei Templi: “Convertitevi. Un giorno verrà il giudizio di Dio”. Non erano più i richiami del passato, ma una scomunica. Salvatore Grigoli, il killer il parroco di Brancaccio, ammise che quelle parole fecero capire a Cosa nostra che “la Chiesa cominciava ad essere diversa”. Totò Riina non ha mai perdonato papa Giovanni Paolo II. Nei suoi dialoghi carcerari, intercettati nel 2014, diceva che “era cattivo proprio, era un carabiniere. Non sei un papa, tu sei un disgraziato, tu sei un prepotente, uno scellerato”. Non si può escludere che l’omicidio di Pino Puglisi e le bombe esplose nello stesso anno davanti alla Basilica di San Giovanni in Laterano e a San Giorgio al Velabro a Roma furono la risposta del capo dei capi all’anatema.
Perché la mafia, a parte qualche pentito che ha ammesso di avere cambiato vita dopo aver sentito le parole del Papa, ha tirato dritto per la sua strada. Cosa nostra ha subito duri colpi per merito dello Stato, ma è rimasta sorda di fronte alle parole degli uomini di Chiesa.
È andata meglio tra la gente, ma non abbastanza per parlare di svolta. La mafia regola ancora la vita in molti quartieri dove è più facile, comodo e conveniente rivolgersi ai boss. È vero, non è più la “povera Palermo” dell’omelia di Sagunto, ma la situazione resta preoccupante. Alla città, però, va concessa un’attenuante. È difficile accorgersi che un altro mondo è possibile se ci vuole l’arrivo del papa per vedere finalmente una strada pulita.
Ora è stato Papa Francesco ritornare sul tema. Come ha scritto Salvo Toscano quando il Pontefice chiede la conversione e quando direttamente si rivolge ai mafiosi, Bergoglio li chiama “fratelli e sorelle” e li esorta a cambiare. Pregando quindi per la loro salvezza, “altrimenti, la vostra stessa vita andrà persa e sarà la peggiore delle sconfitte”. Non resta che coltivare la speranza che le sue parole lascino il segno, che i mafiosi e con essi una parte di città non restino sordi.
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16 Settembre 2018, 13:18