Beni restituiti a Francesco Lena | Doppio ricorso dell’accusa

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29 Aprile 2018, 06:00

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PALERMO – Errata valutazione della prova ed errata applicazione e interpretazione della legge penale. Sono questi i punti che hanno convinto la Procura della Repubblica e la Procura generale – il ricorso è duplice – ad impugnare il decreto con cui la sezione Misure di prevenzione del Tribunale ha restituito i beni all’imprenditore Francesco Lena.

Nei primi giorni di aprile il collegio presieduto da Giacomo Montalbano – giudice relatore Luigi Petrucci, giudice estensore Giovanni Francolini – ha dato ragione all’imprenditore e ai suoi legali, gli avvocati Andrea Dell’Aira e Rosario Vento, respingendo la proposta di confisca avanzata per una serie di aziende fra cui l’Abbazia Sant’Anastasia che gestisce una casa vinicola e un relais a Castelbuono.

Dopo anni di attesa l’imprenditore ottantaduenne si è scrollato di dosso anche il peso delle misure di prevenzione, ribaltando il primo giudizio del collegio un tempo presieduto da Silvana Saguto, oggi sotto processo a Caltanissetta e radiata dalla magistratura. Era stata la Procura a chiedere la confisca del patrimonio, quella stessa Procura che ora difende il proprio operato.

Lena fu arrestato, processato e assolto con sentenza definitiva dall’accusa di mafia. Gli veniva addirittura contestato di essere un prestanome di Provenzano. Secondo il procuratore aggiunto Marzia Sabella e il sostituto Calogero Ferrara, che hanno firmato il ricorso, nel processo penale “la soglia probatoria raggiunta è stata inferiore al grado richiesto per giungere a una condanna al di là di ogni ragionevole dubbio, ma risultano ormai accertati e comprovati i rapporti diretti e la disponibilità di Lena verso numerosi componenti, anche di vertice dell’associazione mafiosa, nel corso di tutta la sua vita professionale”.

E per dimostrarlo citano alcuni passaggi delle sentenze di primo e secondo grado con cui Lena è stato assolto, ma nelle quali si dice che sono stati “accertati i rapporti di Lena con soggetti vicini a Cosa Nostra, il suo possibile ruolo quale intestatario fittizio di beni di esponenti del sodalizio mafioso (fattispecie erroneamente non contestata, aggiungono in pm), il suo ricorrere a tali soggetti quando in difficoltà economica, il suo atteggiamento omertoso tenuto nel corso della sua intera vita professionale”.

A completare il quadro della presunta pericolosità sociale di Lena, secondo la Procura, ci sono le ombre contabili sollevate dagli stessi giudici che gli hanno restituito i beni, i quali scrivevano che “i dati rassegnati dai periti, pur evidenziando anomalie contabili e il fatto che Lena abbia disposto di denaro contante la cui tracciabilità non può affermarsi non consentono di confermare la prospettata appartenenza a un’associazione di tipo mafioso”.

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Anomalo è stato considerato il pagamento in contanti di 10 miliardi di lire da parte dei padri rogazionisti all’impresa di Lena, “ma non vi sono elementi per assumere la provenienza illecita. Per il resto non è possibile in alcun modo individuare la fonte delle somme utilizzate da Lena già dagli anni Ottanta, ma al contempo nel disordine contabile e dalla disponibilità di esse non si traggono elementi che depongano per la loro riferibilità alle attività illecite in seno a Cosa nostra”. Ed ancora: “Né sulla base dei dati contabili può affermarsi che le attività imprenditoriali di Lena abbiano tratto vantaggio da rapporti da lui intrattenuti con l’organizzazione criminale”.

I pm ricordano nel ricorso che “i bilanci di esercizio di ciascuna delle società costituenti il Gruppo Lena evidenziano nel periodo preso in esame (1973 – 2006) risultati d’esercizio negativo anche di importo ragguardevole, e quantificate in complessive Lire 11.550.166.537”.

Altro nodo controverso è quello sulla pericolosità sociale che ormai ha fatto giurisprudenza, cambiando il corso dei procedimenti delle misure di prevenzione. Secondo un recente orientamento, la pericolosità deve essere attuale. Di parere opposto i pm palermitani, secondo cui “l’attualità della pericolosità deve essere individuata nel momento in cui viene emessa la decisione di primo grado, sicché è irrilevante che gli elementi sintomatici o rivelatori della pericolosità del soggetto risultino lontani nel tempo nel corso del procedimento di appello o di legittimità”.

La battaglia, dunque, si sposta in appello. La Procura ritiene, a differenza del Tribunale, che ci siano i presupposti per confiscare il patrimonio dell’anziano imprenditore.

“Ci difenderemo come sempre nel processo – replica l’avvocato Dell’Aira – come è avvenuto finora con successo. Una cosa, però, crea una profonda amarezza: non è possibile che in uno stato di diritto debbano passare dieci o dodici anni per giungere a una decisione definitiva”.

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29 Aprile 2018, 06:00

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