Caro Totuccio, vandalo d’agosto… | Per piacere, non uccidere il mare

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15 Agosto 2017, 05:52

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Caro Totuccio (pure se ti chiamassi Gabriele sarebbe lo stesso),

Già dall’alba di oggi ti stai preparando a uccidere il mare. La tua giornata di Ferragosto ha avuto inizio con una accurata sistemazione tattica. Tir di pasta al forno al seguito (a proposito, la mangi con l’uovo o senza? Sai che ci sono acerrime scuole di pensiero sul tema). Macchina caricata fino all’inverosimile. Ombrellone da campo. Sedie pieghevoli. Canotto d’assalto. Alloggiamento per la nonna che ha 97 anni e l’enfisema, ma in spiaggia, giustamente, non può mancare. Alloggiamento bis per Ugo, il cane che ti hanno regalato come cane, ma, in effetti, non si capisce che bestia è, soprattutto quando ‘abbaia’.

Una volta sbarcato, come la sesta flotta, sul litorale di Mondello, con famiglia allargata, metterai su un distaccamento monumentale. Poi ti dedicherai alla distruzione scrupolosa del mare. La cicca di sigaretta di tua moglie finirà in mezzo alla sabbia, ricoperta dalla medesima col piede, in un gesto furtivo, oppure no, tanto chi se ne frega? Le bucce d’anguria saranno direttamente lanciate tra le onde, nella speranza che ‘il lancio di buccia d’anguria’, sia proclamato, prima o poi, sport olimpico. I pannolini del bambino idem.

Gli altri due figli – entrambi pettinati come Nainggolan – daranno il via a un derby sulla spiaggia, con un Super Santos che colpirà, invariabilmente, una persona ogni tre tiri. Ma tu, Totuccio, non li riprenderai. Anzi, ne sarai fiero e scoraggerai eventuali reazioni dei presenti contusi. Siamo palermitani. Una modica quantità di arroganza ci fa stare meglio. Ci allarga i polmoni. Ci fa respirare di gusto. Sporcherai. Insozzerai. Fierissimo di te sarai.

A sera, dopo tanta devastazione, tornerai soddisfatto a casa, con la gioia di uno che ha portato a termine la sua missione: assassinare la bellezza. Perché tu sei palermitano, Totuccio. E il palermitano, spesso o talvolta, odia ciò che è bello. A parole lo protegge, con le sue azioni lo annienta.

Allora, forse – caro Totuccio, che non ti chiami così, ma qui sei appena una metafora a cui dare un nome, senza indicare nessuno, in particolare – come stratagemma per fermarti, per fermare te e tutti gli Attila della teglia di pasta al forno, ecco una didascalia chiara, per spiegarti, finalmente, perché il bello è bello e perché potresti amarlo. Spiegartelo così, con semplicità, con naturalezza, come se tu fossi un amico, non il vandalo del 15 agosto.

Hai mai visto il mare di Mondello alle sei del mattino? Hai mai azzardato il bagno a quell’ora riservata ai poeti, ai pazzi e ai vagabondi? Se è accaduto, avrai notato che il mare (alle sei del mattino) somiglia a un bambino nato da poco. Se ne sta lì, immobile, senza un cenno che non sia una timida increspatura. Non chiede attenzione. La suggerisce col suo battito cristallino. E quando ti tuffi, si sveglia, ti circonda con un’innocenza che ha solo a quell’ora e che spinge alle labbra una preghiera dell’infanzia.

Il mare delle undici è un ragazzo, fiero della sua fragile baldanza. E’ più scuro, di alghe che rammentano la barba incerta di un adolescente. Si presta alle corse e agli ‘splash’, in un concentrato di asciugamani, gavettoni e risate. I mondellani hanno già piantato le loro insegne che sventolano vittoriose. Le cabine compongono comunità allargate di donne pazienti che cominciano a preparare il pranzo, con la stessa dolce rassegnazione di casa. Gli uomini fumano e discutono di calcio e di soldi. Sono passati quei tempi in cui, in mezzo alle chiacchiere, clandestino e momentaneo, spuntava il verso di un poeta. La forma più diffusa di letteratura contemporanea è il Grande Lamento sull’estratto conto dimagrito. I ragazzi, intanto, si lanciano, arditi, sull’onda, come se la loro eternità dovesse durare davvero in eterno. Il mare della sera è un vecchio. Il suo respiro è spuma bianca. Ha raggiunto la saggezza. Gli abbracci che le persone si scambiano, tra acqua e riva, hanno il sapore di un addio. Ma non c’è rimpianto, mentre il sole tramonta.

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Vedi perché puoi amarlo il mare, Totuccio? Perché, se lo guardi, lo riconosci, lui è come te. E poi c’è il mare parallelo. Quello della memoria. Il fantasma delle estati passate. C’è chi se la ricorda ancora l’ultima estate dei padri, prima che fossero inghiottiti dalla smemoratezza. Era il luglio dell’Ottantadue. Televisori in bianco e nero. Pale di ventilatori al soffitto. Paolo Rossi che schianta il Brasile con tre gol. E il portiere sudamericano, Valdir Peres, che si inchina per tre volte, con il cuore spezzato; ma sarebbe morto per l’amarezza solo quarant’anni dopo.

C’erano i padri, sulla stessa sabbia, con i figli a fabbricare castelli, a incastrare formine colorate che ricopiavano una stella marina sul bagnasciuga. I padri giovani tenevano per mano figli piccolissimi. I padri adulti si mangiavano con occhi di protezione e tenerezza figlie adolescenti. I padri maturi affrontavano lunghe passeggiate verso l’orizzonte. I padri vecchi avevano la serenità di un traguardo imperfetto, di qualcosa che, nel bene o nel male, era stato compiuto.

Poi i padri cominciarono a dissolversi, come una razza in via d’estinzione, già dall’estate dell’Ottantatré ce n’erano di meno. In cinque anni scomparvero. Al loro posto, spuntarono gli uomini dell’estratto conto. Non avevano niente da insegnare, se non l’effimero. Non avevano amore da scambiare, se non la pornografia di affetti rattrappiti. Non c’erano mai, non regalavano nemmeno un secondo – lo prestavano a usura – e quando c’erano sarebbe stato meglio che non ci fossero mai stati. I Grandi Padri sfumarono come gli ultimi televisori in bianco e nero, tracce residue di un mondo perduto.

Caro Totuccio, se guardi il mare, prendi addosso tutta la sua meraviglia, le sue contraddizioni, le sue contorsioni tra allegria e malinconia. Forse per questo odi la bellezza. Perché ti mette sottosopra ed è molto più grande di te. Forse per questo, nell’illusione di salvarti, covi il bisogno di distruggerla.

Eppure, in certe sere, osservando i palermitani a Mondello, si può pensare che ci sia una remota speranza. Persone dalle facce distese passeggiano senza affanno, senza rabbia. Non c’è più il popolo che aggredisce spazi e anfratti con la sua violenza e con la sua sporcizia. Perfino le truppe del selfie, quelli che non sanno cosa siano le emozioni perché sono impegnati a condividerle prima che vibrino, discendono in disordine le dune che aveva affrontato con orgogliosa sicurezza.

E c’è un silenzio quieto, attraversato da un bisbiglio di cose private, familiari e intime. E c’è il respiro del mare, intermittente, sullo sfondo. La sua bellezza non fa più paura. La bellezza non dovrebbe fare paura. Mai.

Perciò, Totuccio, almeno oggi, a Ferragosto, nel giorno in cui tutti si sentono in dovere di essere più brutti, più volgari, più palermitani nel senso peggiore dell’esserlo, tu cerca di non uccidere il mare. Rispettalo, se non ce la fai ad amarlo, come una cattedrale con le pareti e il tetto trasparenti. E non buttare la buccia d’anguria accanto a ciò che resta di una stella marina. Laggiù un bambino che non è più un bambino ha posato la sua mano e ha accarezzato il ricordo dell’ultima estate con suo padre. Ma quando è accaduto, lui non lo sapeva ancora.

 

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15 Agosto 2017, 05:52

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