Ciancio, Nitto e l’omicidio Lipari |Le rivelazioni del pentito Di Carlo

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04 Luglio 2018, 08:33

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CATANIA – Occhiali oscurati, giacca grigia e camicia bianca. Francesco Di Carlo, uno dei profondi conoscitori dei segreti di Cosa nostra, è stato il protagonista dell’udienza del processo a carico di Mario Ciancio Sanfilippo. L’editore de La Sicilia si deve difendere dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Ha 77 anni il collaboratore di giustizia, ma i suoi racconti sono lucidi e precisi. La prima parte del suo esame, svolta dal pm Antonino Fanara (che insieme alla magistrata Agata Santonocito rappresenta l’accusa) è dedicata alla sua storia criminale. Di Carlo è entrato in “Cosa nostra nel 1961. Ero un soldato semplice di Altofonte. Poi sono diventato il capo famiglia di Altofonte, che fa parte del mandamento di San Giuseppe Jato. Il capo mandamento era Bernardo Brusca”. Nel 1979, però, il collaboratore di giustizia decide di dimettersi da capo famiglia di Altofonte. Non è in linea con alcune scelte e alcuni omicidi. “Puoi dimetterti dal ruolo ma non puoi uscire da Cosa nostra”, precisa Di Carlo. Da quel momento allora “Bernardo Brusca mi ha ceduto al capo regione Michele Greco”. L’ex boss di Altofonte diventa un uomo a disposizione della Commissione anche se non aveva potere di voto. Portava i messaggi alle altre province e soprattutto organizzava le riunioni. Ed è grazie a questo ruolo che Di Carlo conosce i catanesi, tra cui Nitto Santapaola. “Mi considerava il suo migliore amico”, afferma.

Prima di concentrarsi sul capitolo Catania. Di Carlo, rispondendo alle domande di Fanara, racconta della sua scelta di allontanarsi da Palermo e da Cosa nostra. “Non volevo far massacrare due persone. Totò Riina mi disse: “Non ci sono amici nei periodi di guerra, se tu non sei d’accordo vattene a Londra”. E così fa Di Carlo, che già in quel periodo “facevo avanti e indietro dall’Inghilterra”. Poi c’è l’arresto per traffico di droga a Londra e la condanna. Finisce dietro le sbarre proprio per i rapporti con i due uomini per cui aveva deciso di tagliare i ponti con la mafia siciliana. Mancavano pochi anni da scontare in galera e Francesco Di Carlo decide di collaborare con la giustizia. “Non l’ho fatto subito perché nessuno doveva pensare che lo facevo perché non volevo farmi il carcere”, precisa il teste.

Francesco Di Carlo avrebbe avuto un ruolo decisivo nell’ascesa criminale di Nitto Santapaola. È lui infatti che organizza la riunione della Commissione in cui si decide di riformare i mandamenti e inoltre si dovevano giudicare i comportamenti dell’allora capo di Catania Pippo Calderone. A Catania è in corso una guerra. La Commissione si riunisce in un castello. Totò Riina ordina che nessuno doveva essere armato. Ci sono oltre 100 boss. Alla fine è deciso che “il capo resta Pippo Calderone. E diventa vice Nitto Santapaola”. Una decisione di facciata in realtà, perché Toto Riina vuole risolvere la questione Calderone. Ma Nitto Santapaola “perde tempo”, si sarebbe lamentato il boss corleonese. Di Carlo dunque avrebbe contattato Santapaola, che sembrava restio all’uccisione di Calderone che “già aveva sofferto tanto per l’operazione alla gola” (per questo il soprannome “cannarozzo d’argento”, ndr). “Poi nel 1978, mi pare, è stato ucciso”, dice.

Si passa al capitolo imprenditori catanesi. Di Carlo racconta di essere andato nell’ufficio dell’imprenditore Costanzo a Misterbianco accompagnato direttamente da Nitto. “Ho conosciuto Pasquale, e poi anche Carmelo”. Il collaboratore di giustizia parla anche degli altri Cavalieri: “Graci, Rendo e Finocchiaro”.

Ad un certo punto parla di “Ciaccio” o “Ciancio”, non ricorda bene il cognome Di Carlo. I catanesi lo avrebbero definito “come Ciancimino a Palermo”. “Un pezzo grosso – aggiunge – che era anche proprietario di giornali”. Sarebbe stato l’uomo in grado di risolvere diversi problemi. “Si rivolgevano a Ciaccio per diversi tipi di esigenze, per una diffida, per un problema al tribunale o con la giustizia”.

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E ci sarebbe un caso specifico in cui sarebbe intervenuto l’imprenditore “Ciaccio”. È il 13 agosto 1980. “Nitto Santapaola, Franco Romeo e Ciuzzu u firraru (Francesco Mangion, ndr) sono andati a trovare Mariano Agate, boss di Mazzara, per avere una serie di informazioni su una serie di società collegate a uno dei Cavalieri. Poi però sono stati fermati a un posto di blocco e sono stati arrestati perché accusati dell’omicidio del sindaco di Castelvetrano Lipari. Ricordo che quel giorno ero a Capo D’Orlando e sono andato a Catania perché dovevo incontrarmi con Nitto, ma poi il fratello Salvatore mi ha raccontato quello che era successo. Ma mi ha subito rassicurato che dopo qualche giorno sarebbero stati rilasciati perché stiamo facendo intervenire gli amici”. In un secondo momento, anche se Di Carlo, non ricorda precisamente quando, è lo stesso Nitto a raccontargli che ad interessarsi della vicenda era stato “un capitano amico, un certo capitano a cui era stata regalata un’auto (Santapaola aveva una concessionaria Renault, ndr) – e anche Ciaccio”. L’obiettivo sarebbe stato quello di fornire tutte le notizie utili a discolpare Nitto e gli altri santapaoliani. “Ciaccio” o “Ciancio” sarebbe stato in grado di “pressare” per la liberazione del boss catanese.  Nel corso del controesame l’avvocato Carmelo Peluso, difensore di Ciancio, chiede precisazioni a Di Carlo su che tipo di informazioni e in che modo il supporto del capitano e di “Ciaccio” potevano aver offerto un apporto alla liberazione dei catanesi. Il collaboratore di giustizia ribadisce quanto risposto a Fanara. Fornire le informazioni e le prove a discolpa di Nitto. “Come l’orario di partenza da Catania, che era incompatibile con l’orario dell’omicidio del sindaco di Castelvetrano”, spiega ancora Di Carlo.

A sorpresa il nome di “Ciaccio”, l’ex boss di Cosa nostra lo inserisce in un nuovo episodio. Questa volta all’epoca di quando capo di Catania era ancora Calderone. Il boss catanese avrebbe parlato con “Ciaccio” per far ottenere un bar all’aeroporto al titolare di una pasticceria. “Questa storia della pasticceria è nuova”, precisa Fanara. Non è infatti in quel verbale del 2015, che viene citato dall’altro difensore dell’editore Mario Ciancio Francesco Colotti (subentrato a Giulia Bongiorno, neo ministro). “Come mai dal 1996 al 2015 non ha mai parlato di questo “Ciaccio”?”, chiede. “A domanda rispondo”, chiarisce Di Carlo. Su questo aspetto il legale ribadisce che “sull’episodio di Lipari, Di Carlo ne parla solo dopo la fine della registrazione come dichiarazioni spontanee e non su sollecitazione del pm”. L’avvocato Dario Pastore, legale dell’Ordine dei Giornalisti costituitasi parte civile, precisa che Di Carlo parla di “Ciaccio” rispondendo a una precisa domanda dei magistrati.

 

 

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04 Luglio 2018, 08:33

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