Cronaca

Coronavirus, l’impatto della pandemia sull’accesso alle cure

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11 Luglio 2021, 05:02

7 min di lettura

La più grande emergenza sanitaria dal dopoguerra ha provocato, oltre al massivo annientamento di vite umane e alla decostruzione della quotidianità, danni economici di vasta portata e nefaste ricadute sul sistema sanitario nazionale. All’inizio del 2021 un pesante bilancio evidenziava il “contraccolpo indiretto” del virus sulle altre patologie. Secondo “Sanità Informazione”, considerato che durante il picco dei contagi un ricoverato su due era malato di Covid-19, per le patologie più delicate e le prestazioni tempo-dipendenti non è rimasto spazio di azione: ridotti del 50% gli interventi cardiologici, crollati gli screening e le visite specialistiche con picchi del -70%, negli ospedali italiani, in un breve lasso di tempo, ha avuto luogo una radicale rivoluzione. Le conseguenze del sovraffollamento di pazienti Covid rispetto ai servizi ospedalieri sono state immediate ma saranno durature. In estrema sintesi, prestazioni di varia natura sono state o ridotte o sospese e ciò provocherà grossi danni, in particolare sulle patologie non direttamente correlate al virus: le strutture ospedaliere hanno segnalato un minore flusso di pazienti, derivante dalle restrizioni di accesso in ospedale, con effetti potenzialmente disastrosi su un segmento di una popolazione tanto considerevole quanto fragile.

Non rivolgersi al Pronto Soccorso, se non per situazioni particolarmente severe, ha compromesso le diagnosi tempestive, l’ospedalizzazione e la terapia di patologie ad alta morbilità e letalità, quali la sindrome coronarica acuta e lo scompenso cardiaco; nel periodo di piena crisi, la mortalità è aumentata a causa di presentazioni in ospedale più tardive del dovuto, che hanno condizionato gli esiti delle cure, accrescendo il rischio di complicanze. Nel settore cardio-vascolare, l’omissione protratta nel tempo delle attività diagnostiche, del trattamento delle patologie cardiache e la restrizione delle attività ambulatoriali, al di là delle disfunzioni rilevate, genererà in un prossimo futuro un importante incremento epidemiologico dell’incidenza di molte cardiopatie, con inevitabili problemi di salute pubblica, e una crescita della richiesta di prestazioni tale da trovare impreparato il Servizio Sanitario Nazionale.

Con riguardo al mancato accesso alle cure ospedaliere, anche la Società Italiana di Neurologia aveva lanciato l’allarme, durante il primo lockdown, rispetto alla conversione in posti letto di terapia intensiva per Covid-19 del 50% dei posti nelle Unità di Terapia Neurovascolare (stroke-unit). Questa situazione si è perpetrata a danno di pazienti con ictus che, non trovando posto o avendo paura di recarsi in ospedale, sono andati incontro a morte o a gravissima invalidità. L’Associazione per la Lotta all’Ictus Cerebrale (A.L.I.Ce. Italia Odv) ha più volte denunciato la notevole diminuzione del numero dei pazienti con ictus cerebrale arrivati nei Pronto Soccorso, pari al 40-50% di accessi in meno rispetto allo stesso periodo del precedente anno, crollati, durante le ondate del Covid, non perché ci fossero meno casi di ictus, ma perché le persone avevano, e hanno tuttora, paura di rivolgersi agli ospedali. L’aver trascurato le patologie tempo-correlate rischia di creare ripercussioni a lungo termine, in un frangente nel quale il nostro SSN è già in sofferenza nel garantire i migliori servizi possibili per i pazienti affetti da malattie non trasmissibili, in particolare per quelli con condizioni acute come ictus, traumi cranici, crisi epilettiche, polineuriti acute, sclerosi multipla, i cui trattamenti sono, comunque, sempre tempo-dipendenti.

Da ultimo, ma non ultimo, il male dei nostri tempi non è andato in quiescenza aspettando che la pandemia si estinguesse. Il flash report dell’European Cancer Organisation, Cancer Will Not Wait for the Covid-19 Pandemic to End, pubblicato l’11 maggio 2021 per il lancio della campagna “Time to Act”, conferma che in Europa vi sono state un milione di diagnosi di cancro in meno a causa del Covid. È davvero tempo di agire, perché i dati sono spaventosi: in tutta Europa, nel primo anno della pandemia i medici hanno visitato 1,5 milioni di malati di cancro in meno rispetto all’anno precedente. Sono un milione i casi di cancro “inosservati”, ovvero che potrebbero non essere diagnosticati a causa dei rinvii, dell’arretrato dei test e delle risorse sanitarie limitate e 100 milioni gli screening oncologici non eseguiti; una persona su due con sintomi di cancro non è stata inviata urgentemente in ospedale per una diagnosi, un paziente su cinque non riceve ancora il trattamento chirurgico o chemioterapico di cui ha bisogno.

Estesa a tutta Europa e guidata dalla task force della rete speciale della E.C.O, la campagna di sensibilizzazione ha l’obiettivo di sollecitare l’opinione pubblica, i pazienti affetti da cancro, gli operatori sanitari e i politici per garantire che il contenimento del virus non continui a minare la decennale lotta contro i tumori, e di lanciare un nuovo hub europeo, Covid-19 & Cancer Data Intelligence, per la condivisione dei dati. Come ricordato dalla Commissaria europea per la salute e la sicurezza alimentare, Stella Kyriakides, prevenzione e diagnosi precoce restano le migliori possibilità di fronteggiare il cancro. Bisogna andare dal medico, a fare i controlli, agli appuntamenti di screening: l’auspicio è che i servizi sanitari faranno tutto il possibile per tenere al sicuro i pazienti.

In buona sostanza, l’accesso all’ospedale deve essere garantito. Per reagire e prepararsi alla ripresa, si può attingere all’esperienza che la crisi affrontata ci ha, seppur drammaticamente, offerto, adeguando nuove soluzioni al nuovo contesto. Raccogliere spunti presenti nelle aree più colpite in tutto il mondo e derivanti dall’osservazione della reattività e del comportamento dei loro sistemi sanitari, può offrire suggerimenti pratici ai leader di ciascun paese e ai loro team sia nella risposta all’emergenza che nel corso di una vera e propria “ricostruzione sanitaria”: occorre collaborare, proprio come se si vivesse in un clima post-bellico. Ecco perché il ruolo dei governi e il buon utilizzo delle risorse economiche sono fondamentali.

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Durante emergenze sanitarie come quella ancora in corso, i governi dovrebbero disporre con massima priorità i meccanismi che consentano di proseguire le attività di routine. Non occorrono geni della politica per comprendere che particolare attenzione dovrebbe essere posta alla prevenzione e al mantenimento delle condizioni di benessere preesistenti. Chi non governa la normalità, come può gestire la catastrofe?

Sarebbe utile, e chissà perché sembra fantascienza, istituire nei posti di lavoro, quindi con uno sforzo organizzativo minimo data la preesistenza di schemi e dati, un sistema di monitoraggio della salute, mantenendo ovviamente riservate le informazioni sullo stato di salute dei dipendenti; ancora, garantire la sicurezza degli ambienti di lavoro sanificando rigorosamente gli spazi, in conformità con i requisiti di gestione dell’igiene previsti dalle autorità sanitarie pubbliche nazionali e regionali in vigore; implementare l’educazione alla sicurezza, stabilendo le linee guida per l’autoprotezione dei cittadini e aumentando la consapevolezza sulla prevenzione dei rischi. Le crisi che hanno scosso il mondo occidentale negli ultimi decenni sono state principalmente legate a contingenze economiche, a cui seguivano difficoltà sociali. Lo scenario attuale, invece, presenta solo in parte similitudini con i cambiamenti radicali a cui abbiamo assistito nel passato, poiché ai rischi occupazionali si uniscono i rischi di salute pubblica. La scelta “salute o lavoro” resta inaccettabile; ma la sopravvivenza viene prima di tutto. Le istituzioni devono tutelare la salute, hanno l’obbligo di preservare la dimensione legata alla sfera del benessere, mantenendo le persone sicure e facendo sì che siano coinvolte nel sostenere, in attesa che la crisi si risolva, un’organizzazione resiliente.

Difatti, abbiamo introiettato questo nuovo vocabolo dal suono dolce, resilienza. Paragonato a “morte”, lemma definito e definitivo, inequivocabile come il traguardo della corsa, l’epilogo della storia, l’ultimo verso della poesia della vita quale che sia la sua qualità, declina conforto nella sfera corporale in quanto “resistenza a rottura”, e in quella psichica, come capacità di reagire di fronte a traumi e difficoltà.

Spaventati, quindi resilienti, in un’epoca nella quale ogni sfida sembrava possibile e una malattia ci ha ridimensionati, guardiamo frastornati ai giorni nei quali indifferenza ed edonismo ci avevano indotti a dismettere l’esercizio dei diritti civici e l’ottemperanza ai doveri, delegando, delegando, delegando. Oggi questo disinteresse non è solo dannoso, è assurdo quanto un suicidio di massa. Ma la distanza tra cittadini e istituzioni non può essere accorciata ad opera di chi governa. Occorre il coinvolgimento dei cittadini (cittadini, e non “utenti”), per promuovere la salute.

Nuove idee, il recupero dell’autonomia intellettuale e politica, una disomologazione che ridiscuta un sistema inadeguato, una rinata partecipazione alla gestione della cosa pubblica: ecco quello che dovrebbe lasciarci la lezione amara e mortale della pandemia.

Rosamaria Alibrandi

Pubblicato il

11 Luglio 2021, 05:02

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