07 Giugno 2020, 12:32
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Non adesso che l’immenso patrimonio letterario di Franco Scaldati sta per raggiungere la Fondazione Cini, dedico i miei pensieri alla sua poesia.
Da giorni incontro la sua immagine proprio sul mio scrittoio su cui ho appoggiato una raccolta antologica di scritti in sua memoria, intitolata ‘Il poeta degli ultimi’.
Che poi la poesia è sempre degli ultimi perché, se così non è, difficilmente mostra il margine vivo della ferita.
Chiamo Melino Imparato a cui chiedo di inviarmi dei versi di Franco su cui desidero fermarmi. Che li scelga lui, secondo il suo sentire.
Potrei ricordarlo nell’anniversario della sua morte. Ma un poeta non merita fretta. E anche il mio tempo suggerisce le continue, invisibili variabili delle scadenze interiori.
Arrivano, scritte a macchina ma con correzioni vergate dalla sua mano, Dieci piccole pallide storie, scritte per il cinema e datate settembre 2001.
Già dai primi versi s’intuisce che la dedica al cinema non è che una variante di stile perché il mestiere di Franco era quello di braccare l’anima. Di questa dolcissima caccia avrebbe potuto creare visioni da fotogrammi, strutturarle in un romanzo o, come più spesso faceva, nella purezza della sua vocazione, far trovare casa ai suoi versi nell’illusoria abitazione della scena.
Le dieci pallide storie ingannano come inganna la Poesia. Hanno altrettanti titoli che sono porte d’ingresso di un’unica suggestione sulle percussioni di uno stordimento.
Dove siamo? In una sterminata veglia funebre ‘in cui passano i giorni e la scena è sempre uguale’ sul corpo morto dell’amata, pallido giglio, sui cui rimane il tormento dell’amore? O in un’eterna pioggia la cui ‘notturnità’ da inganno al nome e fuoco e carne nuda ai sensi?
Non puoi saperlo perché un affanno ti ruba lucidità e ragione mentre una donna sussurra: “Poeta mio, liberami i st’incanesimu”.
Ma sottrarsi dalla rete poetica di Franco è impossibile.
I personaggi sfuggono agli eventi: una giovane donna appare madre di un vecchio, vuoto il letto su cui tre amanti trovano riparo, mani assassine che squarciano il cuore, fiato di morte i fiori.
Il ricordo dell’amante fa fiorire la pena: “’E manu tua, a piag’o corpu miu versava l’ahrma, ‘e labbra tua c’eran ‘i mè paroli e ‘a locchi tua c’erano i mè sonni.” – questa è l’offerta del simulacro della gioia.
Piove amore in questi pallidi versi, anche sul quartiere ‘rischiarato da mille fiammelle’ senza cielo in cui l’ombra attanaglia la giovinezza in una morte.
Frammenti eterni in una nuvola filmica, fotogrammi prossimi allo sfinimento nel dolcissimo livore della fine.
Ho molti ricordi di Franco nella sua Albergheria, uno fra tutti il suo invito a seguirlo in una regia teatrale a cui opposi la mia mancanza di talento per la polvere viva del palcoscenico.
Ma il nostro ultimo incontro lo ricordo bene.
Dormiva quieto sul palcoscenico del nostro Stabile. Con i suoi quattro ceri la cui luce sembrava alimentata dagli occhi dei figli.
Eravamo in pochi in teatro. Per salutarlo dovevo avere scelto un’ora di poco clamore, ma era il suo ultimo atto.
Arrivano per chiudere la bara e il sipario raccolto sembra avere un tremito porpora.
Prima di uscire avevo lasciato sulla mia pagina la stessa scena per una di quelle coincidenze a cui è difficile credere: avevo lasciato la mia sordomuta nel lavacro dopo l’agonia.
Annoto tutto con lo sguardo dell’anima, mentre i chiodi affondano nel legno e la sua donna sembra sentirli nella carne.
E, in quell’estremo atto di umanità, mi sembra di sentire la sua voce:” U vidi comu si fa? Accussì s’astuta la luci di stu munnu.”
La pagina che concludo, tornando, la scrivo per l’ultimo insegnamento di un grande Maestro.
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07 Giugno 2020, 12:32