22 Maggio 2016, 09:26
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Nel contesto d’una evoluzione vorticosa di usi, costumi e mercati, cos’è accaduto al pensiero critico? Conviene ancora esercitarlo? E che ne è delle capacità critiche non utilizzate? Confluiscono in un dormiente filone carsico, pronte ad affiorare se un’età della ricostruzione richiedesse nuovi apporti intellettuali nella società contemporanea? Dopo la rivoluzione culturale degli anni Sessanta, si sono avvicendati l’austerity dei Settanta, l’edonismo yuppie degli Ottanta, il collasso sovietico e la fine della Prima Repubblica italiana dei Novanta; poi, il tramonto malinconico del ‘secolo breve’ e la crisi delle ideologie del Duemila. Il radicale e rapido mutamento nella cultura del mondo occidentale ripropone l’interrogativo comune alle cesure storiche: la nostra cultura è in crisi o in decadenza?
Non è una mera questione terminologica; da una crisi si può uscire, mentre la decadenza potrebbe essere senza ritorno. In un contesto poco vivace, nel quale il superficiale, il momentaneo e l’episodico obliterano i significati profondi della vita e minano le radici stesse della coesistenza, la decadenza è testimoniata dal trionfo dell’effimero. Al di là della lotta per apparire, tuttavia, emerge, sia pure sporadicamente, la necessità di ritrovare, oltre che quelle dell’etica e della politica, la funzione della cultura per tracciare una via di superamento della condizione presente, nella quale le facoltà critiche sono considerate sopravvalutate e non necessarie; anzi, quel che caratterizza la nostra epoca, è proprio il loro spreco. Si procede, accelerando, nell’inesorabile discesa verso il basso capitalismo, o, per usare il neologismo coniato dal critico letterario Francesco Muzzioli, verso la catamodernità.
La perdita di criticità, e tout court di intelligenza, nell’affrontare ogni questione, è un danno per l’intera società, votata all’appiattimento e svuotata del bene che è la diversità; siamo precipitati, più o meno consapevolmente, in una condizione catamoderna, come afferma Muzzioli (‘Verbigerazioni catamoderne’, 2012) nel suo icastico Manifesto della catamodernità, così definita ‘non solo perché il cata- è il prefisso della catastrofe, nelle cui vicinanze ci dibattiamo. Anche perché il prefisso cata- indica una caduta verso il basso e quindi si attaglia alla fase di basso Capitalismo (come si dice “basso Medio Evo”) in cui il nostro stesso continente sembra condannato a un innarrestabile declino’.
Nella sua forma assertiva il ‘manifesto’ costituisce un genere editoriale tipico dei nostri tempi, espressione della crisi del capitalismo globalizzato, nato per la modernità ma destinato a riscuotere odierni consensi. Strumento-tipo delle avanguardie storiche – simbolismo, futurismo, dadaismo, surrealismo – per proclamare le proprie idee e i propri fini, risalente alla primaria formula del Manifesto del Partito Comunista di Marx ed Engels, cui andrebbe il riconoscimento d’un ideale diritto d’autore, viene oggi recuperato da una modernità che non sa morire e che, se è vero che ha bisogno di manifesti, ancor più avrebbe bisogno di manifestanti. Sempre più virtuale, la società separa con difficoltà l’oggetto dal soggetto della percezione; la pagina scritta che il manifesto rappresenta prova a colmare questa distanza nell’ambito della partecipazione al dibattito collettivo, oggi che la crisi ci trova, nella guerra dei media, irrimediabilmente sconfitti.
La polemica modernità-postmoderno è la componente peculiare dell’attuale situazione culturale, e ne svela tutta la precarietà con il nostalgico atteggiamento verso il passato, l’incertezza sui compiti presenti e il buio mentale riguardo alle aspettative per il futuro. E, a proposito di manifesti, ‘Il postmoderno si ritrae, filosoficamente e ideologicamente, non perché abbia mancato i suoi obiettivi ma, proprio al contrario, perché li ha centrati fin troppo bene. Ciò che hanno sognato i postmoderni l’hanno realizzato i populisti, e nel passaggio dal sogno alla realtà si è capito davvero di che cosa si trattava’ scrive il filosofo Maurizio Ferraris nel ‘Manifesto del nuovo realismo’ (2012). Se la realtà è infinitamente manipolabile, la verità è una nozione inutile: in questo assioma si concretizza il pensiero postmoderno, che ha pervaso ogni ambito della quotidianità, dalla politica, all’arte, alla letteratura, alla dipendenza dal linguaggio delle fiction e dei reality, così finto da risultare vero. Ecco perché siamo piombati a capofitto nella catamodernità, verrebbe da commentare.
Più che replicanti di Blade Runner che tentano di aggrapparsi a un’inesistente affettività, siamo i ‘fatiscenti zombie’ senza futuro dipinti da Marco Palladini, prigionieri in un rutilante eppur cupo ‘mediaevo’ senza più ideologia, paghi della ‘abbuffata di tecnologia’. La sensibilità sarcastica del poeta ci avverte che, più che uno spettro di marxiana memoria, è la Spectre nemica di James Bond che si aggira per ‘lo scassato pianeta’ muovendo ricchezze e perpetrando sconci finanziari che mettono in crisi milioni di persone mentre, docili, continuiamo ad accumulare ‘ogni genere di inutile merce e consumiamo/ tutto il superfluo che dissennati produciamo’. Siamo noi stessi spettri che non fanno paura, ma, semmai, ne hanno.
Ma chi è l’uomo catamoderno? Secondo la definizione fornita dall’editore D’Ambrosio, una persona che intende estremizzare la modernità ormai affondata, consapevole della contradditorietà dell’essere e della multiformità del reale, che esprime il pensiero dell’età catamoderna in contrapposizione a ciò che è postmoderno, laddove per postmoderno si intende il processo che ha liquidato la modernità e il suo criticismo radicale.
Un vinto di malavogliana memoria. L’uomo dell’età catamoderna vive la sconfitta della modernità, delle sue utopie e delle sue conquiste. Tuttavia, il concetto di catamoderno non contiene soltanto una diagnosi dello stato delle cose, ma implica un imperativo, ovvero la necessità di far rivivere, percorrendola fino all’estremo, la modernità e i suoi profondi significati di progresso, per un risveglio dal ‘sonno della ragione’, e soprattutto dall’inquietante ‘sonno dell’immaginazione’, che, come sostiene Muzzioli, hanno lasciato spazio all’ideologia della confusione, che rende tutto uniforme, omologa il pensiero ed esclude la critica, i dubbi e una possibile riconsiderazione dei fini comuni.
Per raggiungere tali fini, quelli di un miglioramento della qualità della vita, occorrerebbe che fosse comune anche un percorso. La parola ‘comunicazione’ ha un significato, quello di ‘mettere in comune’ qualcosa: sia un pensiero, o un’azione, verso la meta del cambiamento, che non può più essere costituito da un ritorno al passato, a un mito impossibile, con la conseguenza di essere svuotato di efficacia concreta. A cambiare il mondo, al contrario, occorre sempre un atto politico (nel primitivo senso di relativo alla polis) collettivo, reale nel reale, e il pre-requisito della consapevolezza critico-dialettica del presente. Altrimenti, ogni buona intenzione, se irragionevole, diventa utopia. E non vi è più una ‘moderna’ stella polare che guidi l’atteggiamento razionale dell’uomo; siamo circondati da cattivi maestri ma orfani di Maestri; postmoderne variabili di riferimento comportamentale, talvolta soggettive, talaltra culturali o sociali, rendono l’azione umana incerta, problematica. L’uomo ha sempre la possibilità di abbandonare la lotta finalizzata a migliorare il proprio stato e fuggire, ma la fuga non potrà avvenire in una direzione qualsiasi. Meno che mai in avanti. E tornando indietro nel tentativo di recuperare vecchi modelli per fondare una nuova polis, si rischia di perdere la connessione col reale, di non sapere più che cosa sia il mondo.
Un mondo in cui impera l’assurdo, che ha scolorato i sogni e azzerato la progettualità, nel quale la condizione umana spesso si identifica nel contrasto fra persecutori e perseguitati. Ecco quindi la necessità di spostare la conflittualità materiale alla conflittualità sul terreno delle idee con la determinazione di risolverli, i conflitti, mediante una rinascita dell’intelligenza e della critica, per rilanciare una nuova modernità.
La sfida catamoderna è tremendamente affascinante. L’ultimo, maestoso manifesto d’un movimento semisommerso che da solo si genera, si connette, s’interroga, s’immerge e rinasce, forte d’una spontaneità urgente che decodifica, per le teste pensanti, la catastrofe e il conseguente bisogno di arginare l’avanzata del nulla, che nobilita l’ansia di riempire i vuoti d’una esistenza trascorsa sui social, tra post e selfie, con il libro, il viaggio, l’arte, e ogni processo creativo possibile, sia pure in fieri.
Verso dove corriamo? Più che una domanda, oggi è un dubbio senza risposte certe. Forse, occorrerebbe riscoprire il senso del divenire dell’uomo, ponendo il nesso tra destino umano e destino cosmico come campo d’indagine di ogni vera conoscenza. ‘Se vuoi conoscere te stesso, cercati nella vastità del mondo. Se vuoi conoscere il mondo, scendi nelle tue stesse profondità’, affermava il filosofo Rudolf Steiner. Nell’orizzonte del mito che ha governato la coscienza per millenni, si delinea il fondamento teorico del diritto dell’uomo a un destino felice: c’è nell’uomo qualcosa di divino che può essere recuperato, e che, si spera, gli permetterà di conquistare quella felicità che gli compete in forza della dignità della sua natura. Si tratta, in buona sostanza, di soffiare forte sulla fiammella della speranza, offerta agli uomini come ultima dea, perché l’esistenza trovi nuove forme e nuove modalità di espressione e che in tali forme incontri il futuro.
Un nuovo Illuminismo, ci ricorda Ferraris, implica fede nell’uomo e nel progresso. L’umanità deve salvarsi, e occorrono il sapere, la verità e la realtà. ‘Non accettarli, come hanno fatto il postmoderno filosofico e il populismo politico, significa seguire l’alternativa, sempre possibile, che propone il Grande Inquisitore; seguire la via del miracolo, del mistero e dell’autorità’. Perdendo la partita senza averla giocata.
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22 Maggio 2016, 09:26