“Festeggerò la libertà | con un bicchiere di vino”

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02 Settembre 2015, 19:08

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La sua memoria inossidabile non è una leggenda. E il carcere non l’ha scalfita. Anzi. Se possibile l’ha perfino irrobustita. Ed è la prima cosa che mi colpisce, più della sua magrezza, dei chili abbondanti perduti negli oltre quattro anni e mezzo di detenzione, quando mi ricorda un trafiletto, una notizia che scrissi una trentina d’anni fa sul “Giornale di Sicilia”. “Tu non ti ricorderai, ma sei stato il primo giornalista a fare il mio nome su un quotidiano. Avevo poco più di 25 anni e venni eletto segretario provinciale dei giovani DC di Agrigento, e tu scrivesti la notizia sul “Giornale di Sicilia”: una vita fa.” No, non lo ricordavo. E quando glielo confesso ed esalto la sua memoria, i suoi occhi scintillano dietro le lenti e accompagnano un sorriso compiaciuto di chi incassa una conferma per una dote straordinaria. Non ho mai frequentato Salvatore Cuffaro. La nostra conoscenza è dovuta alle stesse origini agrigentine e ai rispettivi ruoli che inevitabilmente si sono più volte incrociati ben oltre quel trafiletto di trent’anni fa, lungo la sua scalata politica, la sua ascesa e la sua caduta. Ma non sono la carriera politica e le sue vicende giudiziarie, le sentenze e la pena, le scelte e gli errori, che oggi mi incuriosiscono e mi interessano di quest’uomo che con grande dignità, come tutti gli riconoscono, sta affrontando il carcere e scontando una condanna che scadrà il 15 dicembre prossimo. Di queste cose si è detto e si è scritto tanto. Meno, molto meno sappiamo di come abbia inciso la galera nell’uomo che era e nell’uomo che è diventato. Perché il carcere cambia chiunque. E non solo i detenuti. Ma tutti coloro che vi operano. Dai poliziotti penitenziari agli assistenti sociali, dai medici ai confessori. Lo so perché è successo anche a me. A vent’anni ho fatto il servizio militare negli agenti di custodia nel supercarcere di Favignana. Sono entrato un acerbo ragazzotto come tanti e sono bastati nove mesi per svezzarmi e riconsegnarmi alla vita un’altra persona. Un’esperienza straordinaria che venticinque anni dopo mi ha spinto a scriverne un romanzo (“Vento di tramontana” – Mondadori 2010) per raccontare il carcere visto con gli occhi di un ragazzo; i detenuti e le loro agghiaccianti storie; quel mondo a parte che sono le prigioni, con le loro regole non scritte, i silenzi che dicono più di mille parole, il rispetto per l’altro, chiunque esso sia, e il disprezzo per chi si è macchiato di reati ignobili (violenze su bambini e su donne, principalmente). Ho conosciuto mala carne entrati ignoranti e usciti uomini nuovi di grandi sensibilità. E ho conosciuto criminali spietati entrati in galera semianalfabeti, capaci di recuperarsi attraverso la cultura, lo studio, fino a giungere alla laurea con 110 e lode e a scoprirsi persone completamente diverse, diametralmente opposte ai feroci assassini che sono stati, ma che non usciranno mai perché sono stati sepolti in una cella dall’articolo 4 bis, il cosiddetto ergastolo ostativo, da non confondere con il 41 bis che è invece il regime di carcere duro. Come l’empedoclino Giuseppe Grassonelli, la cui storia abbiamo scritto insieme, a quattro mani, nel memoir “Malerba” (Mondadori 2014). Nel suo caso, come in quello di molti altri detenuti, la pena come una forma di riscatto di una vita bruciata, ma almeno recuperata nella consapevolezza degli errori e di un rinnovato senso civico. Ma se per rimandare libero un Giuseppe Grassonelli occorre una legge che abolisca l’ergastolo ostativo, altrimenti sarà destinato a uscire dalla cella solo dentro a una bara, nel caso di Salvatore Cuffaro, il cancello del carcere di Rebibbia sferraglierà sulla sua libertà tra quattro mesi. E lui lo vede già quel giorno. E mi confessa cosa farà. “Andrò subito da mia madre per darle e ricevere l’abbraccio che ci è stato negato. Poi andrò a far visita a mio padre al camposanto: voglio parlare un po’ con lui di presenza, in questi anni abbiamo parlato a distanza. Poi insieme a mia moglie e ai miei figli voglio festeggiare il ritorno alla libertà con un bicchiere del vino di mia produzione. Non bevo un bicchiere di vino da cinque anni! Poi dedicherò il mio tempo a far conoscere e a far prendere coscienza allo società e allo Stato del problema delle carceri, per questo mi sono iscritto al partito radicale, ma non farò politica. No. Farò l’agricoltore. E scriverò un altro libro.”

Bastano queste poche parole a restituirci un uomo diverso dal potente governatore della Sicilia che stringeva mani e baciava chiunque come fosse un Messia, tanto da meritarsi l’appellativo di “Totò vasa vasa”. Quell’uomo non c’è più. Non affossato da una sentenza. Ma rigenerato – per quanto paradossale possa apparire- da quasi cinque anni di prigione. Che però non devono apparire quasi come una manna. Perché dietro a un recupero ci sono lunghi giorni e interminabili notti di sofferenza che lo hanno portato a dire che “il carcere è un volo in caduta libera nel dolore, solo per pochi è anche un gioco senza vincitori. Per tutti è un cambiamento sostanziale della condizione umana da dove è impossibile vedere le cose con una prospettiva confortante. Dice Oscar Wilde ne “La ballata del carcere di Reading”: ‘E il lancinante rimorso e i sudori di sangue, nessuno li conosce al pari di me, perché colui che vive più di una vita, deve morire più di una morte’. E io vorrei aggiungere che nella mia ‘ballata del carcere di Rebibbia’, ho imparato che un uomo ha il diritto a guardare dall’alto in basso un altro uomo solo per aiutarlo a rimettersi in piedi.”

In carcere, con facile retorica, si dice che uno ha tutto il tempo che vuole. Per leggere, per esempio. E lui l’ha fatto. Se quando faceva il collegio nei Salesiani leggeva tanto, gli anni degli studi universitari di medicina lo hanno allontanato dalla lettura. Da politico divorava quotidiani e riusciva a leggere una ventina di libri all’anno. In carcere ne legge dieci al mese.

“In cella leggere e scrivere è un accadimento di sogno e di ricerca di libertà. Almeno due volte all’anno leggo ‘I promessi sposi’, tutti dovremmo leggerlo. Ho riletto gli autori russi, tedeschi (che bello ‘La montagna incantata’ di Mann) francesi, inglesi, americani, i nuovi cinesi, tutte le tragedie, a cominciare da quelle greche, i classici, tutti i siciliani, molti italiani, Pavese, Deledda, D’Annunzio, Pellico, i poeti, e mi fermo sennò non finisco più.”

Il carcere amplifica tutto. Amplifica il senso della vita. Ti spinge nell’angoscia della privazione, ma ti mette nelle condizioni di esaltare quei valori che fuori di qui sai solo che ci sono, ma non li indaghi abbastanza, non li coltivi come vorresti. Nel tugurio di una cella e nella promiscuità della condivisione, si riflette e si ragiona. E Totò Cuffaro ha fatalmente ripercorso la sua vita, rileggendola, sezionandola, smussandone amenità e isolando sentimenti buoni.

“I sentimenti durano, il mondo che vivi è fragile e può crollare in ogni momento senza ragione. Io ho sbagliato. Ma la mia storia non può essere considerata solo fango. Ai siciliani dirò ancora che ho bisogno di lezioni d’innocenza, per imparare se sono un traditore e per fuggire dagli agguati della menzogna. Con gli occhi seguirò il loro pensiero, origlierò per sentirlo, ne farò tesoro. Mi conforta sapere che la gente pensi che mi stia facendo la galera, come mi è stato imposto dalle istituzioni della Giustizia, con dignità. Del resto, la morale è un’educazione, non una regola. E’ il patrimonio di cultura e di sentimenti che ti porti dentro. L’etica è una scelta comportamentale, è il vivere nel rispetto degli altri e delle Istituzioni. E’ la fiducia ostinata nella Giustizia e nella Legge. Il vincolo che fa di noi degli uomini, sta nella nobiltà della mente e del cuore, e la nostra storia sta nelle nostre azioni e nel senso che abbiamo dato alla vita e non certo nel giudizio che si vuol dare alla nostra vita o come si vuol far credere la nostra storia. “

Da quel pomeriggio di gennaio di quattro anni fa, quando le immagini ce lo consegnarono nei tg della sera che usciva dalla sua casa romana con compostezza per andarsi a fare la galera e rispondeva alle domande esaltando il dovere di accettare con senso civico ogni sentenza (la Cassazione aveva appena confermato la sentenza di condanna del processo d’appello), perfino i suoi detrattori hanno dovuto apprezzare la dignità con cui consegnava la sua libertà ai carabinieri che lo hanno portato a Rebibbia. E da quel giorno, Totò Cuffaro non è apparso più un potente intoccabile. Come d’incanto sono scomparsi il ghigno beffardo e certi sorrisi sornioni come quando lo immortalarono con quel vassoio di cannoli con cui festeggiò la prima sentenza che lo assolveva dal favoreggiamento aggravato a cosa nostra, ma lo condannava a cinque anni per favoreggiamento semplice. Da quel pomeriggio di gennaio, saperlo in prigione, ha allentato in certa opinione pubblica quella traboccante acredine che nutriva nei suoi confronti. E’ stato come se per incanto Totò Cuffaro fosse semplicemente diventato un uomo. Uno che sbaglia e paga. In silenzio. Rispettosamente. E questo ha finito per generare un’equazione ancora molto in voga, soprattutto tra i siciliani “sta pagando lui per tanti, troppi, che invece sono ancora liberi e se la godono, mentre lui con grande dignità sta scontando la sua condanna”. Lo sa anche lui che tutti pensano questo. E quando glielo ribadisco, lui alza le spalle, accenna un lieve sorriso amaro, scuote la testa.

“Non so se sto pagando per tutti. E non mi permetterei mai di dare giudizi sulle altre persone se debbano stare in carcere o meno. So con assoluta convinzione di non augurare il carcere ad alcuno. Non voglio risentimenti, non aiutano. Dico però che la politica è stata la mia vita, il luogo dove mi sono donato alla gente, alla mia terra, dove mi sono donato come uomo e spero come cristiano. Ma è stata purtroppo anche la causa della mia galera. Forse non mi si perdona la mia troppa disponibilità con la gente, che è invece per me l’unica convinzione che mi rimane della politica. So che è stata causa del mio male, ma so anche che se potessi tornare indietro non la cambierei. Fare il presidente della propria Terra è quanto di più bello possa capitare a chi ama la propria gente. La consapevolezza di esser stato votato da quasi due milioni di siciliani e di aver avuto la loro fiducia mi riempie ancora oggi d’orgoglio. La Sicilia è una terra bellissima, difficile e complicata, ma per questo merita ancor di più di essere amata e servita. Io credo di averlo fatto. Ma il mio tempo per la politica è finito, mi sentirei un pesce fuor d’acqua. “

Ma se è finito il tempo della politica per Totò Cuffaro, con l’esperienza del carcere è maturato quello dell’impegno nel sociale e nel volontariato. E quando sarà tornato un uomo libero, giusto il tempo di riassettare la sua vita e ha in mente di andare per un periodo a fare il medico volontario in Africa nell’ospedale che ha finanziato con i fondi della solidarietà quando era presidente, e che ha voluto si chiamasse “Sicilia”. A dargli questa forza, queste motivazioni, sono stati l’amore della famiglia, la vicinanza di molti amici, e soprattutto la fede.

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“Sono sempre stato un credente. La mia è una famiglia religiosa ed ho studiato otto anni nei Salesiani. Dove dimora il dolore, Cristo arriva e porta pace alla disperazione degli uomini che sono al varco del confine, nelle urne del pianto. Arriva e libera gli spiriti legati alle catene. In carcere è uno dei nostri, fatica con noi per riscattare il nostro passato e per ripristinare i nostri giorni. Lo sento camminare accanto a me, consola la mia libertà crocifissa e a ogni passo sento che il giogo diventa più sopportabile. E’ stato proprio dentro a questo vivere che ho capito che è cambiata la mia storia, la mia vita. E’ qui, in questo luogo che ho trovato l’appuntamento decisivo per l’incontro fondamentale con chi ero convinto di avere già incontrato e invece non conoscevo a fondo. La notte nel silenzio e nel buio della cella parlo con lui. E con mio padre. Ci facciamo delle lunghe e belle chiacchierate. Così mi consolo, sto bene e riorganizzo la mia speranza.”

Non è il primo, non sarà l’ultimo detenuto Totò Cuffaro a cercare e a trovare conforto nella fede. Per quanto possa apparire una mera, immaginifica consolazione, so che aiuta, o per lo meno, molti carcerati hanno affrontato con meno sofferenza la pena e alimentato l’attesa nella speranza.

“Se ce l’ho quasi fatta a superare questa avversa esperienza del carcere, lo devo alla fede, all’amore della mia famiglia, a moltissimi amici che hanno continuato a volermi bene, a moltissimi che anche se non conosco mi hanno scritto manifestandomi affetto. Non sono mai stato lasciato solo, neanche per un solo momento mi sono sentito abbandonato. L’amore di tanti mi ha sostenuto e mi ha accompagnato lungo tutto il terribile e pesante percorso della mia detenzione. Il carcere mi ha tolto tante cose e mi sono mancate. Ma non mi è mai mancato l’amore di chi mi vuol bene: ne ho avuto tanto e amo sempre di più la mia terra. Sono affamato di libertà ma sazio d’amore. In carcere ho imparato che la vita va accettata così com’è. La ricompensa che essa ci da è vivere.”

Tra le mura fradice di un carcere. Nel tormento di inverni freddi e umidi e di estati calde e asfissianti nelle celle sempre troppo piccole, sempre troppo strette, si rielabora il senso della libertà. La libertà che ha lo stesso valore per tutti, ma nella quale ciascuno trova la metafora personale.

“Per me la libertà è il respiro lungo della vita. La libertà è guardare a lungo il cielo tutto intero di notte. La notte in carcere non usciamo mai dalla cella. Vedo solo il pezzo di cielo che la mia finestra mi concede. Mi manca il cielo tutto intero di notte con la luna e tutte le stelle. Libertà è dormire nel mio letto: un uomo ha bisogno del suo letto.”

A chi ascolta o legge le parole di un detenuto su un concetto così nobile come la libertà, può sembrargli che ripetano sempre le solite retoriche litanie. Non a me, che a parlare con i detenuti ci sono abituato. Bisogna guardarli negli occhi mentre parlano di libertà. Bisogna ascoltare il tono della voce. Le inflessioni, le pause, i sospiri. Non sentirai mai in un bar, lungo una passeggiata all’aria aperta, discorsi così profondi e sinceri sulla libertà come capita di sentirne in galera, da un detenuto. Tanto che ogni volta che esco da un carcere, me la vado a godere tutta la libertà che a loro manca e che a noi che stiamo di qua è concessa, senza mai esserne consapevoli del suo valore. Chi sconta una pena lo sa. E lo sa anche Totò Cuffaro che mi conceda con una frase che ha il suo effetto: “so che quando finirò la mia pena dovrò lottare per riconquistare la mia libertà. So che quando sarò libero non sarò completamente libero. Victor Hugo scrisse che ‘la libertà non è vera libertà per un detenuto che ha pagato la sua pena: egli non sarà mai libero dalla sua condanna’. Sarà. Ma chiunque sbaglia e sconta la propria condanna non riconquista solo la libertà. Ritorna, soprattutto. Ritorna nella legalità. E questo Totò Cuffaro lo sa dietro al sorriso con cui si avvia a passare un’altra sera, un’altra notte nel buio silenzioso della sua cella.

 

 

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02 Settembre 2015, 19:08

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