Fine vita, la politica non deve avere un colore davanti a chi soffre

Fine vita, davanti alla sofferenza la politica non deve avere un colore

La politica resti laica, rispettando libertà, pluralismo e scelte individuali

Il governatore Luca Zaia, in una recente intervista, solleva una questione cruciale: l’assenza di una legge nazionale sul fine vita crea un vuoto normativo che le Regioni non possono colmare in modo frammentario. Il riferimento alla necessità di regolamentare tempi e modalità di accesso alla procedura è particolarmente rilevante, perché, sebbene la sentenza della Corte Costituzionale del 2019 abbia stabilito criteri chiari, molte questioni operative restano irrisolte.

Il problema evidenziato da Zaia è lo stesso che ha guidato il dibattito alla Camera quando ho svolto il ruolo di relatore della legge. Senza un quadro normativo unitario, i cittadini rischiano di trovarsi in un limbo giuridico, con procedure lunghe e incerte che aumentano la sofferenza di chi chiede l’accesso al suicidio medicalmente assistito. Le sue parole sul pericolo di “venti leggi regionali diverse, tutte a rischio” mettono in luce il paradosso di una politica nazionale che non decide, lasciando alle Regioni la gestione di un tema che richiederebbe un approccio omogeneo.

Particolarmente significativa è la sua risposta a chi invoca le cure palliative come unica soluzione. Il governatore del Veneto ne riconosce il valore, ma sottolinea un aspetto fondamentale: chi chiede il suicidio assistito lo fa per una scelta di autodeterminazione che va oltre il dolore fisico, toccando la dignità e la percezione della propria esistenza. È lo stesso principio che ha ispirato la proposta di legge discussa alla Camera: garantire un diritto senza negare gli strumenti a chi compie una scelta diversa.

L’uso strumentale delle cure palliative nel dibattito sul fine vita è un altro nodo centrale. Chi conosce davvero questa realtà sa quanto tale argomentazione sia spesso ipocrita. Dopo quarant’anni di esperienza come palliativista, ho visto da vicino quanto la politica sia distante dalle reali necessità dei pazienti e di chi li assiste. Le cure palliative sono un diritto fondamentale e dovrebbero essere garantite a tutti, indipendentemente dalle scelte individuali sul fine vita. Tuttavia, chi si oppone a una legge sul suicidio assistito spesso le utilizza come un alibi, come se fossero la risposta a ogni sofferenza e bastasse investire in questo settore per risolvere il problema.

La realtà è ben diversa: in Italia le cure palliative restano inaccessibili per molte persone. Le reti territoriali sono incomplete, i posti letto in hospice insufficienti, i fondi spesso carenti e privi di una tariffa specifica, il personale specializzato non è adeguatamente valorizzato e la formazione in ambito medico e sanitario è ancora lacunosa. Il paradosso è che molti di coloro che si oppongono al fine vita in nome delle cure palliative sono gli stessi che, nei fatti, non hanno mai investito seriamente in questo settore. È un’ipocrisia evidente: da un lato si afferma che “bisogna puntare sulle cure palliative”, dall’altro si lasciano intere regioni senza copertura adeguata, si ignorano le difficoltà delle équipe e si continua a non dare risposte concrete a chi ne avrebbe bisogno.

La richiesta di suicidio assistito non nasce (o almeno non solo) dalla paura del dolore fisico, ma da un bisogno più profondo di autodeterminazione, dignità e consapevolezza della propria condizione. Pensare di risolvere tutto con le cure palliative significa negare la realtà della sofferenza soggettiva, riducendola a un problema medico quando, in realtà, è una questione di libertà personale. Se la politica fosse coerente, dovrebbe garantire un accesso universale e di qualità alle cure palliative, senza usarle come un argomento retorico per eludere il dibattito sul fine vita. Finché le reti palliative rimarranno incomplete e la loro importanza sarà riconosciuta solo a parole, chi le invoca come unica risposta dimostrerà solo di non conoscere davvero il problema.

Quando conclusi la mia dichiarazione di voto alla Camera, auspicando che chi aveva votato contro questa legge non dovesse mai pentirsene, fui aggredito verbalmente e fisicamente da alcuni deputati della destra. È la dimostrazione di quanto il dibattito sul fine vita sia avvelenato da ideologie e ipocrisie, anziché affrontato con la lucidità e il rispetto che merita. La mia frase era un augurio sincero, privo di provocazioni, ma fu accolta con minacce e insulti da chi, forse, ha paura di guardare in faccia la realtà: il fine vita non è una questione politica, ma un’esperienza che, prima o poi, tocca tutti.

La reazione scomposta di quei deputati dimostra quanto il Parlamento sia spesso lontano dalla vita reale delle persone. Chi lavora ogni giorno accanto ai malati sa che il dolore, la paura e la dignità non hanno colore politico. Eppure, chi siede in aula usa questi temi per marcare appartenenza, dimenticando che nessuno è immune dalla sofferenza o dalla perdita. Quando pronunciai quelle parole, non stavo facendo politica, ma ricordando che certe scelte hanno conseguenze umane, non solo legislative. La violenza verbale che ne seguì dice molto su chi preferisce gridare piuttosto che ascoltare, attaccare piuttosto che riflettere.

Rimango convinto che la politica debba restare laica, rispettando il principio di libertà e pluralismo, e soprattutto le scelte individuali. Alla fine, il tempo presenta sempre il conto.

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