09 Febbraio 2021, 14:33
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PALERMO – I picciotti dello Zen avevano fatto uno sgarbo al genero dello “Scintillone”. I boss si attivarono per recuperare il furgone e i soldi rubati a Giuseppe Ruggeri, condannato in appello a 12 anni per mafia, genero del boss della Kalsa Antonino Lauricella.
Il 24 aprile 2020 nelle conversazioni di Francesco L’Abbate, considerato il reggente della famiglia mafiosa dello Zen assieme a Giuseppe Cusimano, fa capolino la storia del furto. L’autista era stato aggredito, picchiato e rapinato. L’Abbate si confidava con un uomo non identificato: “… devo andare a vedere là questa situazione dice che oggi si sono ammuccati il furgone di Giuseppe Ruggeri?… con la mattinata… quando va a lasciare le cozze là… gli hanno levato i soldi”.
Dalla vicenda emerge che Ruggeri, attualmente detenuto, arrestato nel 2015 nel blitz dei carabinieri denominato “Panta Rei”, continuerebbe a lavorare nel settore del pesce. Nel 2019 i giudici delle misure di prevenzione gli hanno confiscato la società L.C.R. Frescogel di Palermo che commercializzava all’ingrosso prodotti ittici.
L’Abbate era molto infastidito perché erano stati “toccati” altri affiliati mafiosi: “… il genero dello Scintilluni (il boss della Kalsa, Antonino Lauricella)… eh ma questo si sa chi è Gabrie’ perché oggi ci vado sotto… perché oggi gli devono dare i soldi a quello… perché quello è in galera… ora viene Gaetano qua a lasciarti la neonata, gira di qua e gli levano i soldi, ma che è?… che quelli sono amici nostri, sono fratelli nostri…”.
L’Abbate si attivò subito, non gli interessava conoscere l’identità dell’autore, ma recuperare la refurtiva: “Cose di scafazzati… che ci vuoi fare?… però si capisce che hanno sbagliato… allora si sa chi è che è bene o male?… si devono dare le cose a quel ragazzo… poi se gli deve fare il regalo glielo facciamo fare… neanche lo voglio sapere Bastia’ ( il dialogo è con Sebastiano Viviano)… chi è che fu neanche lo voglio sapere.. e abbiamo sbagliato e le cose dove sono?… si devono raccogliere”.
Poco dopo L’Abbate confidava a un altro interlocutore che il suo intervento era stato risolutivo: “Lo sai quanto gli hanno levato?… quattrocento euro…ora… li stanno portando…chi fu ? … io gli ho detto non lo voglio sapere chi è che fu… il furgone, le chiavi è andato a prenderle Bastiano… che gli ha fatto avere le chiavi…”.
Ruggeri meritava rispetto. Qualche anno fa il pentito dell’Acquasanta Vito Galatolo disse che “Ruggeri doveva morire, lo doveva ammazzare Pecoraro”. Alla fine sarebbe scampato alla sentenza di morte solo perché la ruota del destino ha girato a suo favore.
“Doveva morire” una notte del 2011, mentre da un’altra parte della città veniva assassinato Davide Romano e il suo corpo caricato nel bagagliaio di una Fiat Uno. Nudo, legato mani e piedi, e con un proiettile di pistola piantato nella nuca. Si tratta di uno degli omicidi ancora irrisolti.
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Un uomo si nascondeva dietro le macchine parcheggiate in corso dei Mille. Alla finestra di un appartamento qualcuno che non riusciva a prendere sonno lo vide, alzò la cornetta del telefono e digitò il 113. Pensò che stesse rubando un’automobile.
Gli agenti di una volante piombati sul posto capirono subito che non si trattativa di un ladro. Nicolò Pecoraro, 68 anni, evaso dagli arresti domiciliari, era lì con una pistola calibro 7.65 in pugno. Mentre arrivavano i poliziotti era già dentro l’androne del palazzo. Un palazzo della periferia palermitana dove abitava Ruggeri.
Ruggeri e Romano nell’aprile del 2008 erano finiti in carcere assieme per droga. Da subito i carabinieri ipotizzarono che Ruggeri e Romano avessero commesso uno sgarro che qualcuno aveva deciso di fargli pagare, ammazzandoli tutti e due. La stessa sera.
Pecoraro era grande amico del padre del mafioso del Borgo Vecchio trovato morto nel bagagliaio. Si volevano un gran bene Pecoraro e Giovan Battista Romano, inghiottito dalla lupara bianca a metà degli anni Novanta perché tacciato di essere uno sbirro. Ecco perché non è stato escluso che, al contrario, Pecoraro, venuto a conoscenza della scomparsa di Romano, poche ore avrebbe deciso di vendicare il figli dell’amico.
Le dichiarazioni di Vito Galatolo invece darebbe forza alla prima ipotesi: Pecoraro era lì per ammazzare Ruggeri. Qualche mese dopo essere stato fermato armato di pistola, Pecoraro è morto nel carcere di Messina. Stava male da tempo. Aveva pure subito un trapianto di cuore. Lo trovarono privo di vita nella sua cella dove era stato trasferito dopo un ricovero all’Ismett di Palermo. In carcere stava scontando una condanna definitiva per un omicidio solo tentato. Non come quello di Davide Romano consumato, come ha raccontato Galatolo, dentro una stalla. Il picciotto era entrato in contrasto con Calogero Lo Presti, che allora guidava il mandamento di Porta Nuova.
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