12 Dicembre 2012, 11:17
8 min di lettura
SAPONARA – Il carabiniere che ha potuto salvare soltanto la memoria di sua sorella non riesce a darsi pace: “Un superiore mi ha chiesto: Campagna, dov’è il verminaio qui? Si sta bene, la zona è tranquilla, quasi quasi mi compro una casetta”. La ripete quella frase, l’appuntato dell’Arma, Pietro Campagna, come se fosse l’ultimo oltraggio. Come se dietro l’apparenza di una banale considerazione si celasse il sarcasmo di una macabra presa in giro. “Dov’è il verminaio? Siamo sulla buona strada”. Pietro Campagna sale e sbuffa sulla trazzera che conduce sopra una collina, a un tiro di schioppo da Villafranca Tirrena nel Messinese. Lassù, in un dolcissimo acquarello naturale, sua sorella Graziella fu trucidata con cinque di colpi di fucile a diciassette anni, la sera del 12 dicembre 1985. Il corpo venne ritrovato due giorni dopo. Prima la interrogarono, probabilmente, tra la muffa e i topi di una vecchia fortezza umbertina. Poi, sicuramente le spararono: quattro volte nel petto e una in testa, per buona misura. Graziella fu ritrovata senza mezza faccia, con la guancia appoggiata alle mani e un braccio alzato per difendersi dai pallini d’acciaio dei suoi carnefici. Il suo errore? Avere scoperto, lei che lavorava in una lavanderia di Villafranca, un appunto nella tasca della giacca di un ricercato, una rivelazione in grado di mandare per aria una finta copertura. Essere andata a cozzare contro il muro di un’inconfessabile verità: la porta appena socchiusa del verminaio. Ecco perché l’appuntato Campagna se la prende tanto. I vermi hanno sbranato Graziella. E, forse, non hanno pagato del tutto. “Negare, anche indirettamente, il brulicare di connivenze, assassini e traffici in questa parte di Sicilia – dice Pietro – significa ucciderla di nuovo, dimenticarla per sempre”. Lui ha potuto salvare appena la memoria e un brandello di giustizia, grazie alle sue indagini sul campo, alla sua tenacia, al suo coraggio.
Esiste una verità processuale. Il diciotto marzo scorso la corte d’assise d’appello di Messina, presieduta da Giuseppe Armando Leanza, ha confermato il verdetto di primo grado, condannando all’ergastolo il boss palermitano Gerlando Alberti jr – nipote del più famoso Gerlando Alberti Senior, detto “U’ Paccarè” – e il suo scagnozzo di fiducia Giovanni Sutera. Il capo d’accusa parla di omicidio premeditato. Erano latitanti, ingrassati al sicuro, negli anni Ottanta, nella cintura garantita di paesini messinesi.
Secondo la sentenza – che ha sposato la richiesta del sostituto procuratore generale, Marcello Minasi – uccisero Graziella Campagna per evitare guai. Alberti aveva preso le sembianze di tale “ingegnere Cannata”. Sutera era per la gente “il geometra Lombardo”. Il torto di Graziella, che si confidò con la madre, fu quello di pescare nella giacca di Alberti-Cannata, in lavanderia, un’agendina compromettente, forse un promemoria – in un’epoca in cui i pizzini non andavano di moda –, un elenco di protetti e protettori. Il mafioso si accorse della circostanza, ricostruì il percorso del suo prezioso pezzo di carta. E non perdonò. In primo grado, due anni vennero inflitti per favoreggiamento a Franca Federico e Agata Cannistrà, proprietaria e dipendente della lavanderia. Il reato è stato prescritto, senza l’aggravante mafiosa Fabio Repici difende i Campagna. Sorseggia un caffé amaro in un bar di Barcellona Pozzo di Gotto. La sagacia del legale è risultata decisiva nella ricostruzione del mosaico. Eppure, Repici – che sta per pubblicare un libro sull’omicidio – ha qualcosa sullo stomaco, come Pietro Campagna. Beve un altro sorso di espresso e tira fuori il rospo: “Villafranca con i suoi silenzi è stata complice dell’evento. Sa cos’è il famoso rito peloritano? È la consuetudine per cui, da queste parti, imputati e giudici vanno a cena insieme. La storia di Graziella ha dato fastidio a molti, perfino al palazzo di giustizia. Graziella era un giglio purissimo in un ambiente colluso e corrotto. Il ritrovamento dell’agendina, con lo svelamento casuale di questo contesto, l’ha condannata. Il giudizio è arrivato alla sentenza, tuttavia è rimasto nascosto nell’ombra un sottobosco di connivenze che ha permesso l’impunità di parecchi mafiosi, garantiti da chi avrebbe dovuto perseguirli. Sì, è un verminaio”.
Pietro Campagna congeda l’avvocato con un abbraccio e due baci, poi comincia il tour del dolore, con fotografo e cronista. Tappa iniziale, il cimitero di Saponara. Nel camposanto del suo paesino, Graziella riposa in pace. La foto della lapide mostra una collana di perle sotto due occhi ridenti. I capelli sono neri e ricci. La magliettina è immacolata. C’è un biglietto inviato da Beppe Fiorello che ha interpretato il ruolo del fratello appuntato nella fiction “La vita rubata”, cucita sulla tragedia della ragazza. “Sono nate troppe polemiche. La messa in onda è stata ritardata – si arrabbia Pietro – per non turbare i giudici, alla vigilia della sentenza. Il sindaco di Villafranca, a proiezione avvenuta, si è lamentato per i toni forzati. E mia sorella? Chi si preoccupa per lei? Io mi sento in colpa. L’hanno ammazzata perché avevano paura che confidasse qualcosa a me, un carabiniere. L’Arma è piena di galantuomini, di persone che si sacrificano per gli altri. Non sono tutti così. In questi mesi tremendi di ricerca e angoscia, ho ricevuto più solidarietà dai delinquenti che dai miei colleghi. Lo strazio non passerà mai. Ho quarantaquattro anni e mi sento come un vecchio di ottantaquattro”. Graziella sorride nella lapide. Non c’è vita nella tenerezza dei suoi occhi.
L’iter giudiziario che ha portato alla condanna di secondo grado non è terminato. Tra provvedimenti di segno opposto, dichiarazioni di nullità, proscioglimenti, scarcerazioni per decorrenza dei termini e condanne, rappresenta un manuale perfetto di vizi (tanti) e virtù della giustizia italiana. “Chi l’ha visto” rilanciò il caso nel febbraio del ’96, grazie alla lettera anonima di una professoressa che chiedeva la riapertura delle indagini. I siti internet antimafia, più di giornali e televisioni, hanno narrato la storia di Graziella. Le testimonianze di nove collaboratori di giustizia fin qui appaiono decisive. Si andrà in Cassazione. Pietro Campagna conserva uno stralcio della “Gazzetta del Sud” del diciannove marzo. “Legga cosa dice il mio avvocato”. Fabio Repici non è andato tanto per il sottile nemmeno allora. Un pezzo a piè di pagina riporta il suo commento: “Sono finite le onnipotenti coperture. Questa vicenda servirà a dare argomenti di riflessione ai comuni cittadini messinesi, per rendersi conto di cosa è stata l’amministrazione della giustizia. Ci sono stati tanti comportamenti di favore da parte di diversi rappresentanti delle istituzioni che hanno cercato di sottrarre i condannati alle loro responsabilità”. È il chiodo fisso di Pietro: “Bisogna fare luce sul resto – incalza -. Su chi ha permesso che Villafranca diventasse un centro dorato di smistamento di latitanti, causando il martirio di una bambina di diciassette anni che aveva intuito verità mostruose, identità segrete. Bisogna smascherare gli uomini in divisa che hanno rallentato le indagini, che non hanno raccolto tutto il materiale che si poteva raccogliere, per tentare un depistaggio. Ci sono connivenze rimaste sepolte sotto uno strato persistente di omertà”. Un altro fratello, Pasquale, ha combattuto la battaglia dal lato opposto della stessa trincea: “Mi sono occupato di più della famiglia, mentre Pietro teneva sotto controllo processi e indagini. Siamo annientati e niente ci ridarà nostra sorella. Almeno sappiamo che una parte di giustizia è stata fatta”.
Per giungere fino al luogo del martirio, sui Colli Sarrizzo, è necessario affrontare una via Crucis di sassi, sterpi e avvallamenti, addolcita da minuscoli fiorellini bianchi e gialli. Graziella fu prelevata alla fermata della corriera alle otto meno dieci della sera del 12 dicembre 1985. Si pensò, secondo un tipico costume, alla pista passionale. Un suo spasimante conobbe i rigori dell’interrogatorio in caserma. Due giorni dopo l’esecuzione, la Forestale scoprì il corpo della ragazza.
Pietro Campagna sale e sbuffa tra i fiorellini bianchi e gialli. A ridosso della montagna c’è Forte Campone, vecchio maniero umbertino dell’esercito. Sulle mura diroccate è possibile intravedere i nomi dei coscritti, scolpiti con la punta di una baionetta. Le stanze della costruzione sono umide e polverose; “Graziella fu interrogata qui – dice Pietro -. Vede questi fili elettrici? Secondo me servivano per raffinare la droga. Nessuno si è dato mai la pena di un sopralluogo”. Il respiro di Piero aumenta d’intensità: “E poi mi chiedono dov’è il verminaio. Ecco, è accaduto lì”. Sulla scorza dura di un sasso circondato dall’erbetta, i killer gettarono Graziella, prima di trucidarla. Erano le nove e dieci. Lei tentò di difendersi con un braccio alzato. Oltre la collina, la vista di cielo e mare è struggente. Quella sera pioveva.
C’è una lapide. Stavolta la magliettina è verde. C’è la collana a filo di petto. Identico alla foto del cimitero il sorriso degli occhi. Il carabiniere che ha salvato la memoria di sua sorella ha lasciato scolpire sul marmo: “Con l’inganno e la forza mi hanno condotto in questo luogo, distruggendo il corpo, ma dimenticandosi della mia anima invincibile”. Pietro bacia la fotografia e mormora: “Graziella era una persona semplice che pensava al matrimonio e preparava il corredo. Andava alle feste in casa e ascoltava i dischi di Alan Sorrenti. Era delicata e nobile d’animo. Io ero un cacciatore. Una volta, lei mi rimproverò: ‘Non è meglio vederli volare gli uccellini, invece di ammazzarli?’. Da allora non ho più tirato un colpo. Vengo spesso a Forte Campone. Abbraccio la lapide. Prego e mi addormento”.
Quassù, le nuvole e il mare fanno pensare a Dio. Gli uccellini cantano liberi. “Graziella era un uccellino”, dice suo fratello. Puoi sentire le sue lacrime e le sue urla, se tendi l’orecchio al vento. Puoi ascoltare il fruscio delle sue ali, mozzate nell’istante del volo.
L’articolo è tratto dal numero 5 di “S”, uscito il 26 aprile 2008.
Pubblicato il
12 Dicembre 2012, 11:17