19 Aprile 2020, 20:25
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“Perché i panifici sì e i bar no?”. Caro direttore, voglio raccontarle una storia, anzi tre, tutte però tristemente collegate tra esse.
La prima racconta di Vito. Vito fa il fattorino in un bar, lavoro regolare, stipendio base da “ci tiro a campare”, una vita di fatica e ristrettezze, comunque dignitosa. Sono settimane che Vito non vede un euro e ogni giorno, con quella timidezza garbata e sempliciona di chi sa di essere disperato ma non fino a che punto può disperarsi, manda un vocale alla sua titolare (chiamarla gli pare male), chiedendo lumi sulla cassa integrazione. Ed ogni santo giorno la titolare, anche lei alle strette, sospirando risponde che non dipende da nessuno, che si deve aspettare, che l’INPS è quella che è, che il consulente comunque assicura la retroattività del pagamento, che presto finirà … Vito sospira di rimando, stando bene attento che quel sospiro entri tutto nel vocale. In quel momento vorrebbe spaccare il mondo, l’INPS, il consulente, la principale e pure il telefonino, però recede (anche perché un altro telefonino chi glielo compra?), abbozza e semplicemente biascica: “la cassa integrazione sarà pure retroattiva, ma la fame no!”. Lo scambio di vocali finisce lì e al buon fattorino non resta che aspettare che sta camurria finisca, che il “suo” bar riapra e che lui possa tornare alle sue giornate faticosissime ma pagate senza retroattività.
La seconda storia riguarda Sergio. Sergio ha una piccola azienda con cui rifornisce i bar di alcuni prodotti, un discreto fatturato, qualche dipendente e l’abilità (o buon senso) di giocare con gli assegni posdatati come un abile baro fa con le tre carte, senza però voler fregare nessuno ma sol perché alla fine d’ogni mese, col “questo entra, questo no”, nessuno perda e si vada avanti. Funziona così, direttore, inutile storcere il naso e dire “non è regolare”, è così che la giostra del nostro piccolo commercio (arruffone, claudicante, sì, ma dignitoso ed onesto) continua a girare … ma questa è un’altra storia.
Torniamo alla nostra. Sergio non lavora dall’inizio dell’emergenza, non fa più consegne, i dipendenti (altri Vito) in cassa integrazione e una montagna di assegni rimasti sul groppone, perché ovviamente andarli ad incassare ora sarebbe come chiedere a Ciaula la luna prima ancora di averla scoperta. Sergio per adesso tira a campare con qualche soldo che aveva messo da parte e con “le 600 euro di Conte” e aspetta impaziente che sta camurria finisca, che i “suoi” bar riaprano e che lui possa tornare a consegnare la sua merce e a incassare i suoi assegni. Ah no, per quelli dovrà aspettare un po’ di più, il tempo che tutti si saranno ripresi; solo che per riprendersi avranno bisogno di merce da vendere e Sergio dovrà consegnarla a credenza, che non è un mobile e non c’entra niente con le vulgate … ma anche questa è un’altra storia.
Terza storia, Piera. Piera ha un bar di periferia, che è chiuso da quando l’emergenza è iniziata. Un’attività dignitosa, con cui certo non è arricchita, ma grazie alla quale è riuscita ad ottenere un mutuo per la casa. Certo, ogni tanto deve fronteggiare i papelli delle tasse, rischia un infarto ogni volta che il consulente le ricorda che c’è la Serit da pagare, non capisce perché la messa in regola debba costarle tanto, si aiuta con qualche assegno a trenta o sessanta giorni, ma alla fine il mutuo è onorato, la casa è salva … ringraziamo Iddio. Per adesso Piera tira a campare con quel poco che era riuscita a mettere da parte, si aiuta con la sospensione di mutui e rate varie, si è accordata col proprietario delle mura per un differimento o sospensione dell’affitto (poi ce la discutiamo), ogni santo giorno manda un vocale di risposta al povero Daniele, si è raccomandata con Sergio di non mettere l’assegno all’incasso e, quando la sera va a comprare il pane, si chiede perché il panificio sotto casa sua sia aperto e il suo bar no. Non ce l’ha col suo fornaio, ma non può fare a meno di constatare come venda le stesse cose che lei vende al bar, eccezion fatta per il caffè e gli alcolici. Ecco, Piera sarebbe disposta a non vendere il caffè e gli alcolici, sarebbe disposta persino a trovare lo spazio per esporre e vendere libri di seconda mano, pur di riaprire subito il suo bar. Perché Piera non aspetta altro che sta camurria finisca e che possa tornare alla vita di trincea che faceva prima. E intanto continua a chiedersi: perché i panifici si e i bar no?
Direttore, se l’è piaciuta sappia che i nomi sono finti, ma la storia è vera
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19 Aprile 2020, 20:25