I pavoni del poeta | L’opera di Perriera

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01 Marzo 2020, 17:37

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Il teatro si era riempito di pavoni.

Apparivano, suggestivi, con piume sulla testa, sulla coda. Ma avevano occhi di uomini: erano addestrati da un poeta che chiedeva loro un eccellente controllo del corpo e un’altissima capacità di concentrazione. Avevano, dunque, pupille vigili e innocenti, con un risvolto leggermente straniato.

Aggredivano muti gli spettatori che, come di consueto, credevano di rimanere ad una confortevole distanza da chi suda amore sul palcoscenico.

Ma dietro le quinte, quella sera, c’era Michele Perriera: metteva in scena la sua opera che avrebbe dovuto presentare l’anno prima, al Festival del Novecento, se il suo cuore non avesse avuto una momentanea sospensione.

Così lo Stabile di Palermo traboccava di irriverenti e seducenti piumaggi, riversandosi su un pubblico che doveva avere la sensazione di trovarsi in uno spazio aperto tormentato dal vento.

Urgeva, era tempo, invece, di pensare alla sala come ad una strada in una notte decisiva con un’orchestra in cui prevalgono gli archi e i cui strumenti sono Pavoni.

Due voci narranti speaker, una maschile e l’altra femminile, aprivano il dramma annunziando una notte di tempesta con fiori che sprizzavano sulle vetrine dei negozi, tutte con avviso di chiusura.

Aldilà di ciò che, convenzionalmente, può chiamarsi avanguardia, accade spesso che un poeta non porti a battesimo i propri personaggi perché l’anima diventa simbolo innominabile sul palcoscenico, proprio come un dio la cui sacralità impedisce di appellarlo con un nome.

In scena, dunque, x un giovane ventenne, y una giovane prostituta, z il sosia di x e un vecchio.

Il palcoscenico è reso cieco da un sipario mentre la donna trasognata, sembra non dare alcuna considerazione né ai pavoni, né all’elicottero che ballonzola sopra la case ma arranca verso l’uomo che le sembra non abbia niente da rimpiangere, né da insegnare.

La città, da un momento all’altro, sta per essere spazzata ma la giovane, cantando una filastrocca, lo invita a tentare un amore.

È troppo tardi per tutto. Lo sa bene Michele, ora che, figuralmente, piazza i suoi pavoni sull’orlo dei marciapiedi, sui tetti, sulle cabine telefoniche mentre, scenicamente, turbano la quiete del necessitato silenzio del pubblico.

Nell’ora stabilita l’uomo deve morire e così sarà.

Non c’è poeta che non conosca le lame come immancabile, dolcissimo supplizio.

E Perriera amava le trappole dell’assassinio tanto da farne la spina dorsale della collana teatrale che dirigeva per Sellerio.

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Perché mettere in scena i Pavoni dal suo sconosciuto bosco di cui egli parla nella lettura che precede l’inizio dello spettacolo?

A Michele sembra di vederli aprendo l’anta di un armadio o scendendo nell’androne o bruciando al sole di uno spiazzo solitario dove, ancora, garriscono grilli naturali.

Perché tacere la nostra falsa quiete? La tempesta è iniziata, ci sta spazzando via silenziosamente. E ora la nostra stessa ombra non ci somiglia più.

Che ne faremo dei sentimenti in questa vellutata balera dell’anima, ora che il tempo ci ha scollati dai nostri vecchi ruoli? – ci interroga il poeta.

Così, alla fine del dramma egli pone una lapide sul fondale del teatro affinché non si creda che ce ne andammo tutti, che tutti vi consegnammo la città senza altra intenzione che quella di fuggire.

È, dunque, accaduto che qualcuno abbia deciso di rifiutare l’esilio, scegliendo una morte lucida, senza alcuna emozione, facendosi uccidere a distanza da un sosia di metallo che aveva pensato secondo i fini e i tempi desiderati.

E sulla scena, quella sera, apparve la sopravvivenza di coloro che possedevano i segreti del vivere, prima dell’avvento di quanti hanno smarrito il senso della natura, il decoro della mente e il fervore del cuore.

Un ultimo j’accuse: è vano svelare il segreto di quel sapere intero e vivo a chi non lo riconosce più.

In un momento in cui l’ignoto sta per accadere, forse è più sano dirsi addio, nel senso più antico e più augurale.

Con questo riconoscimento d’amore, Michele Perriera saluta il suo pubblico, con quella bontà tanto tenera quanto inesorabile e rigorosa che gli apparteneva e che tale deve essere per sconfessare ogni parvenza di servile accondiscendenza.

A luci basse, con la sparizione dei pavoni, sentii il sollievo di molti spettatori.

Avevano appreso il loro stesso tormento: l’inganno scenico aveva funzionato.

In una dolcezza straniata e tagliente, in teatro si era celebrata la decadenza e la sparizione di Palermo.

Rimane il suo ammonimento per quanti volessero ancora comprendere il valore vivissimo di quella morte.

L’opera, scritta nel 1984, è stata pubblicata da Rosenberg & Sellier in una raccolta di testi teatrali sotto il titolo Qui è quasi giorno.

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01 Marzo 2020, 17:37

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