10 Ottobre 2019, 19:12
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PALERMO – Per la famiglia Mulè è la seconda “buona notizia” in pochi giorni. Prima è stato scarcerato il figlio, Massimo, ora è stata revocata la sorveglianza speciale al padre, Francesco.
La sorveglianza era stata decisa nei suoi confronti con un provvedimento del 1995, rimasto in sospeso per 23 anni. Sospeso per cause di forza maggiore visto che Mulè nel frattempo ha dovuto scontare una lunga condanna per associazione mafiosa, tre omicidi e un tentato omicidio durante la guerra di mafia degli anni Ottanta. La condanna era inizialmente all’ergastolo, ma alcuni anni fa una legge ne stabilì la conversione in trent’anni.
Si trattava della legge Carotti del 3 gennaio del 2000, rimasta in vigore fino al 24 novembre successivo. La norma prevedeva che con il rito abbreviato la condanna all’ergastolo potesse scendesse a trent’anni. Mulè, come altri imputati sotto processo in quell’anno, aveva già superato la fase dell’udienza preliminare, che è il momento in cui si può scegliere un rito alternativo qual è l’abbreviato. E così Mulè, come altri boss, lasciarono il carcere in anticipo.
Mulè, boss del mandamento di Porta Nuova, ha pure finito di scontare la sua pena agli arresti domiciliari per gravi motivi di salute. Quando è tornato ad essere un uomo libero, nel 2018, il Tribunale per le misure di prevenzione gli applicò la sorveglianza speciale per tre anni rimasta in sospeso dal 1995. I giudici ritenevano che fosse ancora pericoloso perché, nonostante la lunga detenzione, non aveva reciso i legami con la mafia.
Gli avvocati Marco Clementi e Giovanni Castronovo hanno fatto ricorso in appello sostenendo l’inattualità della pericolosità sociale. I legali hanno anche depositato la motivazione del Tribunale di Sorveglianza che ha messo per iscritto il comportamento carcerario irreprensibile e la certificazione delle patologie mediche. La corte di appello ha dato loro ragione.
D’altra parte la Cassazione ha sancito che per applicare la sorveglianza speciale non basta un’indagine meramente retrospettiva, ma bisogna tenere conto dell’evoluzione della personalità durante la carcerazione. Questo perché altrimenti “si negherebbe la funzione rieducativa della pena e la capacità di emenda che appartiene agli uomini anche a quelli coinvolti in atti delittuosi”.
Insomma ci vuole un’indagine attenta per valutare il rischio di concreto di un’eventuale reiterazione del reato. Nel caso di Mulè non solo la Sorveglianza, ma anche la Dda e la questura hanno escluso che abbia collegamenti con la nuova criminalità organizzata. E così la Corte d’appello le Misure di prevenzione, presieduta da Aldo De Negri, ha revocato il provvedimento del 1995, rinnovato nel 2018.
I nomi dei figli del boss Mulè, Salvatore (U papparieddu) e Massimo (U topo) erano finiti nell’elenco dell’inchiesta “Cupola 2.0” e cioè quella che ha bloccato sul nascere la rifondazione della commissione provinciale, inattiva dall’arresto di Riina. A rappresentare il mandamento di Porta Nuova nella nuova cupola c’era, secondo la ricostruzione dei carabinieri del Nucleo investigativo, Gregorio Di Giovanni, ai cui ordini rispondevano anche i fratelli Mulè.
La loro operatività, raccontavano alcuni boss intercettati, era dovuta al rispetto nei confronti del loro padre Francesco. E così anche se non tutti erano d’accordo, i fratelli Mulè avrebbero avuto un ruolo di peso a Ballarò. Anche in questo caso, però, i legali hanno fatto emergere la mancanza di attualità della pericolosità sociale di Massimo Mulè, già condannato per mafia. Scarcerato lo scorso agosto, è tornato in carcere poche settimane fa nel blitz sui buttafuori imposti dalla mafia nei locali notturni. Pure il secondo arresto è stato annullato dal Riesame.
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10 Ottobre 2019, 19:12