Il Divo della battuta |che ispirava la satira

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06 Maggio 2013, 15:03

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I suoi libri, best seller che gli fruttavano graditissimi diritti d’autore, erano spassosi e gradevoli. Ma la forza di Giulio Andreotti stava nella sue battute fulminanti. Ciniche, sagaci, così potenti da trasfigurarsi in motti, in modi di dire acquisiti dall’uso comune. “Il potere logora chi non ce l’ha” è senz’altro la più famosa. Ma ce ne furono altre, come l’altrettanto celebre “A pensare male si fa peccato ma a volte ci si azzecca”. E via dicendo. “Mi faccio una colpa di provare simpatia per Andreotti – scrisse una volta Indro Montanelli, mai tenero con Il Divo -. È il più spiritoso di tutti. Mi diverte il suo cinismo, che è un cinismo vero, una particolare filosofia con la quale è nato”.

Battutista implacabile, Andreotti fu anche musa di generazioni di umoristi, vignettisti, imitatori. La sua gobba, le orecchie dalla particolarissima forma, l’accento romano e il suo peculiare modo di parlare, divennero negli anni il volto e l’immagine stessa del potere nell’immaginario collettivo di una nazione. Quel potere da combattere criticare, o adulare e venerare, a seconda dei punti di vista. Andreotti lasciava fare. Si arrabbiò però quando vide per la prima volta Il Divo, nel quale con la cifra del grottesco Paolo Sorrentino ripercorre un anno decisivo della sua lunga carriera, il 1992. “Una mascalzonata”, disse i senatore a vita. Per poi ritrattare a stretto giro di posta, correggendo democristianamente il tiro: “Non è una mascalzonata, le mascalzonate sono ben altre. Questa la cancello…”.

Schietto, diretto, il suo eloquio puntava al sodo. Per questo a volte dileggiava, senza mai citarlo espressamente, Ciriaco De Mita e il lessico da intellettuale della Magna Grecia. Fece sfoggio della sua proverbiale ironia anche di fronte alle tante accuse che portarono alla sbarra. “A parte le guerre puniche, mi viene attribuito veramente tutto” divenne un altro dei suoi celebri aforismi.

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Belzebù fu un altro nome che gli affibbiarono. E che dava il senso dell’immagine mefistofelica del potere che agli occhi dei suoi avversari Andreotti incarnava come nessun altro. Indimenticabile la caricatura di Oreste Lionello, che lo rappresentava furbissimo e infido negli spettacoli del Bagaglino. E quella apprezzata molto anche all’estero di Tony Servillo, nel citato film di Sorrentino. Persino Giulio Andreotti al cinema vestì i panni di Giulio Andreotti, nel Tassinaro di Alberto Sordi, giocando sull’italianissimo tema della raccomandazione.

Era anche questo Giulio Andreotti, l’uomo che una sentenza della repubblica italiana inchioda alla responsabilità di rapporti consapevoli con la mafia fino al 1980. Per quanto poco si parli dell’altra verità contenuta nella stessa sentenza, ossia la sua svolta dal 1980 in poi, contro Cosa nostra. Un’immagine a due facce, ancora una volta emblematica in qualche modo dell’Italia e della sua tormentata storia. Anche della morte lo statista aveva parlato. “I miei amici che facevano sport sono morti da tempo”, disse una volta. Lui è arrivato ai 94. Mantenendo fino all’ultimo una religiosità antica e anch’essa molto discussa, fatta di comunioni quotidiane che tanto piacevano nei suoi anni d’oro al mondo cattolico, suo serbatoio di voti. Indro Montanelli, ancora lui, scrisse: «In chiesa, De Gasperi parlava con Dio; Andreotti col prete». Il grande giornalista riferì che, lette queste parole, Andreotti ribatté: «Sì, ma a me il prete rispondeva».

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