Il doppio volto di Nicosia| Quel giorno a casa Brusca

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09 Novembre 2019, 06:00

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PALERMO – Un personaggio dal doppio volto, un dottor Jekyll e mister Hyde dei tempi moderni. “Per aver intrattenuto contatti con esponenti di vertice di altre famiglie mafiose programmato estorsioni, danneggiamenti e altri atti intimidatori, consentito i contatti con gli altri associati anche detenuti…. in Sciacca e altre località della provincia di Agrigento dal 1999 e con condotta perdurante ”. Leggendo la contestazione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere si comprende perché la Procura di Palermo ritenga che Antonello Nicosia sia un mafioso.

La sua partecipazione all’organizzazione Cosa Nostra andrebbe ben oltre la sola ipotesi che abbia sfruttato il suo ruolo di assistente parlamentare per incontrare boss detenuti, recapitare o acquisire messaggi da veicolare all’esterno. I pm ritengono di avere tolto il paravento di legalità con cui Nicosia, assistente parlamentare e componente del comitato nazionale dei radicali, avrebbe schermato le sue incursioni carcerarie.

Secondo il Procuratore aggiunto Paolo Guido e i sostituti Francesca Dessì e Calogero Ferrara, i rapporti di Nicosia con la mafia risalirebbero alla fine degli anni Novanta quando lo stesso faceva parte di un’organizzazione dedita al traffico di droga. Reato quest’ultimo che gli è costato una condanna, finita di scontare nel 2009, a dieci anni e mezzo di carcere.

Nicosia non avrebbe soltanto sfruttato il ruolo che si era ritagliato nel movimento in difesa dei diritti dei detenuti, ma si sarebbe comportato da mafioso in tanti altre circostanze. Tipicamente mafiosa, innanzitutto, sarebbe stata l’accortezza con cui pensava di evitare di essere intercettato: “…. io ogni mese mi cambio la macchina apposta chissà si mettessero in testa di mettere cose… ci vogliono quarantacinque giorni per l’autorizzazione e io gliela vado a lasciare prima. Già ne ho un’altra ordinata… possono solo impazzire, monta e smonta, monta e smonta che minchia mi interessa”.

Analoga accortezza manteneva cambiando spesso schede telefoniche da intestare a ragazzi che “devono essere puliti”, perché “se sono pizzicati non sono buoni, li mettono sotto controllo i telefonini scherzi?”.

Con Accursio Dimino, lui sì certamente mafioso per via di condanne passate in giudicato, Nicosia discuteva di vecchie e nuove vicende di Cosa Nostra. Alcune risalenti negli anni. Sono sempre le parole di Nicosia a ricostruire che “quella sera … quando eravamo a Sambuca mi hai detto: ci vieni a San Giuseppe Jato?”. Con Dimino avrebbe incontrato Giovanni ed Enzo Brusca, mafiosi del paese in provincia di Palermo e allora latitanti. Oggi sono entrambi pentiti.

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Altri tempi quelli dei corleonesi, che Nicosia rimpiangeva. Disprezzava ad esempio Giuseppe Quaranta che, appena arrestato nel blitz denominato “Montagna”, aveva deciso di pentirsi: “…. questo una cosa inutile è… che si usa dare confidenza? Uno spazzino è… tutte cose si sono cambiate… come minchia si affida a gente così… si affidano a gente così scarsa… cosi scadente”.

Nicosia si piazzava nella schiera dei mafiosi di rango. Come quando raccontava di avere incontrato, fra il 1999 e il 2000, Carmelo “Carmine” Bono, allora reggente della famiglia di Sciacca. “… all’oleificio sai cosa mi ha detto? Mi ha detto tu sei Antonello … assai gira il tuo nome… gli ho risposto ma vossia chi è?… minchia cosi… gli ho detto il mio nome gira ma il suo no… perché io a vossia non lo conosco”, rispose con sfrontatezza Nicosia al capomafia. Qualcuno lo aveva richiamato. Non doveva mancare di rispetto al boss. “Ma che minchia me ne fotte a me gli dissi io… a me non mi rappresenta un cazzo… né lui né altri”, rincarò la dose Nicosia. Che aggiungeva particolari anche sul suo ruolo di collettore del pizzo quando la mafia agrigentina era guidata Salvatore Di Gangi: “… no a me per come me li davano… c’erano due favaresi… per come entravano… prendevo e glieli portavo”.

Sempre le microspie lo hanno intercettato mentre, secondo i carabinieri del Ros e i finanzieri del Gico del Nucleo di polizia economico-finanziaria, chiedeva a Dimino se avesse reclutato “qualche ragazzo” per una “operazione”: e cioè un’intimidazione ai danni di un’impresa che stava lavorando al porto di Sciacca. O come quando programmava di spaventare un altro imprenditore che si era aggiudicato con una offerta al ribasso dei lavori in un resort: “… quant’è 300, tu gli fai un danno di 600, così se lo chiamano a fare il servizio lui prende e rinuncia… la pistola ci vuole… Ci devi andare campagne campagne…fallo… solo, e poi te ne vai, ti vai a buttare campagne campagne solo… è brutto, basta ti metti un passamontagna, campagne campagne, vai a piedi non ti preoccupare, lasci la macchina … lo fai e te ne vai ad Agrigento, fuori, a Catania … e sei tranquillo. E cusì si insigna”.

Un’altra volta progettava di zittire un dipendente della Sicil Legno srl, società riconducibile alla madre di Antonino Nicosia, che aveva avviato una causa di lavoro: “… la macchina la parcheggia qua in via Licata… la macchina è dell’azienda. Ma per non fargli un danno a lui direttamente, nella prima fase, non vorrei che sembrasse, prende e gli si dà a questa macchina… si deve fare di notte questo lavoro… un vetro si cambia, la macchina si brucia tutta”.

Nel corso delle indagini sono emersi infine i rapporti fra Nicosia e il castelvetranese Giuseppe Fontana, noto con il nome di Rocky, scarcerato nel 2013 dopo vent’anni di carcere. Fontana è un vecchi amico di Matteo Messina Denaro. Il 14 febbraio 2019 i carabinieri del Ros hanno intercettato e fotografato Nicosia e Fontana mentre si recavano a Porto Empedocle, nel bar dove lavorava Fabrizio Messina, uomo d’onore e fratello di Gerlandino, un tempo capomafia dell’intera provincia di Agrigento.

Tutto questo, e non solo la delicata questione degli incontri con i detenuti in carcere, farebbe di Nicosia un mafioso. Un dottor Jekyll e mister Hyde dei tempi moderni.

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09 Novembre 2019, 06:00

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