26 Aprile 2019, 19:52
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Un motivo c’è sempre. In politica, nulla accade per caso. E così, se ieri la Sicilia ha sommerso di abbracci il leader della Lega Matteo Salvini dimenticando anni di insulti al Sud, deve essere successo qualcosa.
Che cosa? Qualcuno può essere incline a tuffarsi nella sociologia e nella storia recente e antica di un popolo che non ha disdegnato, in passato, il conquistatore che arriva dal Nord. Il Cavaliere di Milano è uno di questi, così come, più recentemente, il comico genovese giunto a nuoto, fino all’ex sindaco toscano che aveva trasformato in “renziani” i politici più insospettabili.
Se non basta questo – e non basta – la spiegazione si può rintracciare nella memoria corta del siciliano e in una tendenza fin troppo diffusa – nell’Isola come altrove, a dire il vero – a trangugiare concetti omogeneizzati, da buttare giù senza masticare. È, a guardar bene, l’immagine che il sicilianissimo Leonardo Sciascia aveva descritto quarant’anni fa indicando l’eterno fascismo degli italiani. La tentazione sempre forte, cioè, anche a molti decenni dal Ventennio, di abbracciare un regime che non desse “la preoccupazione di pensare, di valutare, di scegliere”. Un intero pensiero politico liofilizzato nello slogan “prima gli italiani” o nei rimandi al littorio “tiro dritto” che ora sembra attecchire anche alla Regione siciliana.
Una risposta può essere trovata lì, insomma. A patto di non cadere, da un lato, nella tentazione di considerare – sarebbe un’altra semplificazione pericolosa – Salvini un fascista; dall’altro in quella di minimizzare, non cogliere alcuni preoccupanti segnali che arrivano dal Paese, così allarmanti da spingere anche il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella a ricordare che, se il prezzo da pagare è quello della libertà, si può anche fare a meno dell’ordine.
Insomma, mettiamo il fascismo storico da parte, ma teniamoci il resto. Perché intanto, il leader leghista sta riuscendo nella complicatissima operazione di unire il Paese. Che piaccia o no, sta accadendo proprio questo. E già nelle stanze della politica si parla di un partito “post-Lega”, un partito nazionale (oltre che nazionalista, populista) chiaramente di destra. Un partito che nascerebbe per l’abilità del suo capo di spianare a colpi di ruspa quegli steccati e quei confini che reggevano da un po’.
Prendine uno: quello che ha separato per anni il Nord e il Sud. La retorica semplice di Salvini è riuscita a capovolgere gli sprezzanti giudizi sui “meridionali che non hanno voglia di lavorare”, in quelli sui migranti “che verrebbero a togliere il lavoro a quei siciliani che già non lavorano”. Il nemico comune, a unire ciò che sembrava inconciliabile. Un gioco antico e replicato anche altrove, pescando nei simboli semplici da comprendere: la presenza a Corleone per lanciare un “segnale contro la mafia” che fa dimenticare la mafia del Trapanese e del suo latitante celebre che sarebbe dietro alcuni affari che coinvolgerebbero anche un sottosegretario, fedelissimo del ministro.
Basta questo, insomma? Linguaggio semplice e memoria corta? Ovviamente no. Ma la memoria, forse, c’entra lo stesso. Ed è la memoria di un recente passato che i siciliani conoscono bene e di cui fanno esperienza quotidiana nel presente. È, per intenderci, il passato di una Sicilia guidata da partiti ed esponenti politici che l’hanno affamata, saccheggiata, umiliata. La stessa politica che oggi, confidando sempre nei tanti siculi smemorati, si presenta come “argine” al barbaro giunto dal Nord a conquistare i voti che erano loro. Senza una autocritica, senza un mea culpa. Ma, anzi, con l’arroganza politica di considerarsi la “vera” politica, quella seria, quella competente. Non è un caso che da un po’ di tempo, la Lega “filtri” in maniera assai più attenta gli arrivi sul Carroccio, dopo qualche “sbandata” iniziale. Lo ha capito in tempo.
Il successo di Salvini in Sicilia, che verosimilmente sarà ufficializzato alle prossime Europee, più che alle imminenti amministrative, sarà quindi il frutto anche del fallimento di chi c’è stato. Di chi oggi ha ridotto l’Isola a questo giardino di macerie e di serrande abbassate, con livelli di disoccupazione drammatici, con infrastrutture da Medio evo, con nessuna speranza, nessuna prospettiva, nessun programma che non sia la difesa strenua e arroccata di ciò che qualcuno una volta chiamava “casta”.
E non a caso negli ultimi anni il Movimento cinque stelle ha ottenuto, in Sicilia più che altrove, una pioggia di consensi, diventando di gran lunga il primo partito dell’Isola. Lo ha fatto pescando giustamente nelle contraddizioni di una classe politica, di un passato politico, che ha lasciato poco di buono a questa terra. Così, i Cinquestelle sono diventati il primo partito di Sicilia. Fino a ora. Fino, almeno, al loro suicidio politico, dovuto, da una parte, all’imbarazzante tentativo di scimmiottare Salvini, errore del quale i grillini si sono accorti solo ora, cioè troppo tardi; dall’altra, a una metamorfosi del gruppo dirigente siciliano che oggi appare imborghesito e inefficace nella sua sempre più sterile opposizione. Una classe dirigente dilaniata anche da faide e sospetti, degni della “vecchia politica” che voleva spazzare via. Ed è così che oggi persino la Lega, il partito più vecchio d’Italia, appare come il nuovo che avanza. E avanza davvero. Persino in Sicilia.
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26 Aprile 2019, 19:52