Il Paese di Schettino

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24 Marzo 2013, 08:10

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Siamo abituati a pensare all’India come a un esotico Paese di pezzenti, con quelle scheletriche vacche sacre che camminano indisturbate per le strade e le torme di miserabili che arrancano sulle biciclette arrugginite. E invece oggi l’India, che già vanta straordinarie risorse artistiche e culturali, è un Paese in crescita guidato da una classe dirigente formata nelle migliori università occidentali. Con un tasso di crescita del PIL del 6%, che pur essendo il più basso degli ultimi dieci anni costituisce per noi italiani una chimera, l’India è destinata a diventare una delle Potenze del mondo che verrà. All’inizio di questa brutta storia pensavo ai nostri due marò con il rispetto che ogni italiano deve a chi porta in giro per il mondo l’uniforme dell’Esercito di un Paese che “ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali”.

Il punto è che i nostri soldati non erano imbarcati su un mezzo militare impegnato in operazioni di pace, quanto in una petroliera di proprietà privata in un’operazione anti-pirateria. Militari di carriera ceduti dallo Stato per garantire i commerci e il profitto di un armatore. E di essi stessi. In ogni caso, ritenevo insensato il fatto che due soldati scelti avessero volutamente ucciso due pescatori. Speravo che si affermasse il principio dell’involontarietà del misfatto e che prima o poi si sarebbe trovata una soluzione onorevole per due Paesi amici incappati in uno spiacevolissimo incidente. E mentre trovavo giusto che gli indiani difendessero gli interessi delle famiglie dei due compatrioti uccisi, non concordavo sulla strategia italiana volta a suffragare la tesi dell’extra-territorialità del luogo dell’incidente più che quella del tragico errore. In ogni caso, non si poteva non notare l’atmosfera rilassata di quel processo per duplice omicidio con i due imputati ospitati in albergo, piuttosto che in lerce galere di stampo italiano, e autorizzati a tornare in Patria per Natale ed in occasione delle elezioni politiche.

A un certo punto, grazie al classico colpo di genio italico, la situazione è degenerata. Durante la “licenza elettorale” dei marò, due ministri tecnici di un governo in scadenza come lo yogurt si sono inventati lo stratagemma del mancato riconoscimento della giurisdizione indiana, nonostante il fatto che l’ambasciatore italiano avesse garantito, e non a titolo personale, il ritorno in India degli imputati dopo il voto. Apriti cielo: con un atto che rappresenta il punto più basso dei rapporti recenti tra il nostro Paese e una nazione straniera, gli indiani, non straccioni e neppure fessi, hanno immediatamente “sequestrato” l’ambasciatore italiano. Davanti alla ritorsione indiana, ecco la consueta “calata di braghe” tricolore: ridateci l’ambasciatore che vi riconsegniamo i soldati. E amici come prima. O forse no?

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Si perché adesso i sorveglianti pubblici della navigazione privata venuti dalla terra dei cachi ed incappati in un tragico errore si sono trasformati d’incanto nei rappresentanti di un Paese di furbastri pronti a rinnegare la propria parola e di codardi pronti a ingranare la retromarcia al primo cenno di ritorsione. Il Paese di Schettino. Ancora una volta, l’immagine dell’Italia agli occhi del mondo e dei suoi stessi cittadini ne esce “a pezzi”. Come in occasione della vergognoso silenzio internazionale sulla strage di Ustica costata la vita a 81 italiani innocenti. Come in occasione della strage del Cermis o dell’assassinio di Nicola Calipari. Come in occasione della mancata estradizione di Cesare Battisti, condannato con sentenza definitiva all’ergastolo per quattro omicidi. Prima che su tutti noi, il disastro politico-diplomatico sulla questione dei due marò rischia di ritorcersi su loro stessi, novelli esponenti di un esercito di uomini veri storicamente al comando di ominicchi seduti al fresco del ponentino romano.

Obbedendo a un ordine dei loro superiori, essi sono appena tornati in India dove li aspetta il giudizio di un Paese irritato e offeso. E le ultime questioni sul rischio della pena capitale aggiungono confusione. Perché non si capisce come, in uno Stato di diritto in cui vige la separazione dei poteri, il governo indiano avrebbe potuto fornire garanzie sull’esito di un processo non ancora iniziato. Mentre, d’altra parte, l’ordinamento italiano vieta di concedere l’espatrio a un imputato che rischi la pena capitale. Specie se questi è un proprio cittadino giudicato in terra straniera. Mi domando con quale orgoglio i due marò oggi indossino l’uniforme di un paese incapace di meritarsi il rispetto altrui e persino quello dei propri servitori. Ma davvero è così difficile non comportarci, almeno qualche volta, da italiani?

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24 Marzo 2013, 08:10

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