15 Gennaio 2023, 06:01
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CATANIA. – Sei nato a Catania nel ’56. Com’era la nostra città quando eri ancora un bambino?
Erano gli anni ‘60. Era un qualcosa di fantastico.
C’era la ricostruzione e si cominciava a vivere un po con l’idea dello stare bene, della ricchezza, del benessere, diciamo così, ed il benessere non era quello dell’arricchimento facile.
Il benessere era avere la certezza di un pasto, anzi due pasti, la certezza che possibilmente a fine mese ci si poteva comprare un frigorifero, l’avvento della televisione e forse dalla Vespa si passava alla 500.
Questi erano gli anni 60, almeno nella mia famiglia.
– Nel 2015 hai pubblicato con Maimone il libro “Basta che non sudi”, frase tipica ed iconica delle mamme catanesi. Che bambino era il piccolo Gino e che rapporto aveva con sua madre?
La pubblicazione di “Basta che non studi” risale ormai a sette/otto anni fa. Ho promesso di non scrivere più libri e fino ad adesso ci sto riuscendo.
Che rapporto avevo con mia madre?
Un rapporto non da bimbo mammone, perché mi piaceva tantissimo andare per i fatti miei.
Tant’è vero che quando lei diceva “Basta che non sudi” per me era come un diapason che dava il LA ed io suonavo in RE, indubbiamente, senza problemi: Sudavo!
– Tu che sei un emblema della comicità catanese, osservatore attento, acuto ed arguto delle peculiarità e delle sfumature di chi c’è nato, che rapporto hai con la tua città? L’hai vista cambiare molto negli anni?
Io alla parola “Catania” ho fatto un sospiro, non lo so se di angoscia. Ho preso tempo per dare la risposta giusta, perché di primo acchito rispondere a su Catania non è mai facile.
Ho un rapporto di odio e amore con la mia città: la amo da difenderla a spada tratta, ma soprattutto difenderla da chi è andato via da Catania.
I maggiori detrattori di questa città infatti sono coloro i quali hanno abbandonato la città, si sono arresi.
Sono quelli che ti dicono “Io sono andato a lavorare a Londra”.
Non è vero, c’è chi sta lavando i piatti e li potrebbe lavare anche qui, con maggiore dignità.
Lavare i piatti significa fare anche un lavoro qualsiasi. “Faccio l’audio a a Londra!”, perché non lo fai qui?
“Faccio il grafico a…”, perché non lo fai qui?
Per quale motivo non farlo qui a Catania?
E difendo soprattutto la mia città da questi detrattori, perché se noi vogliamo che una città cambi dobbiamo rimanere qui, non si cambia da fuori. Non si cambia tranquillamente scrivendo su Facebook o sui vari social “Ma che città, ci sono stato quest’estate ed ho trovato spazzatura…”, perché non vieni anche tu a darci una mano a pulire? E per pulire io intendo non solo le strade, ma anche la mentalità di chi la sporca, la mentalità di chi non la sa amministrare.
Vieni e dai una mano a coloro i quali soffrono per una città che amano.
– Nel ‘76, assieme ad amici come Turi Giordano e Guido Bonaccorsi mettete in piedi il Gatto Blu, in via Raddusa 7, dove nel 1856 Angelo Grasso aveva installato un teatrino di Pupi, ed andate in scena con “Ospedale Cinico”. Ti va di condividere con noi i ricordi e le emozioni che conservi di quell’esperienza magica e cosa rappresenta per te Il Gatto Blu oggi?
Hai aperto un file bellissimo, un ricordo bellissimo, perché “Ospedale cinico” era il nostro primo lavoro teatrale di cabaret.
Era una cosa completamente diversa.
Sai cosa succede? Abbiamo sentito il bisogno di avere una sala, un luogo deputato dove poter fare questa forma di spettacolo che altresì nessuno poteva o sapeva ospitare, perché i teatri non arrivavano a capire: “Ma scusate, voi avete poche scenografie, ma quanto dura un atto?”. Non non è un atto, ci sono una serie di sketch, di monologhi. “Ma cosa succede?”… Si cominciava nelle discoteche ed immagina un pò che cosa significa nelle discoteche interrompere i Manhattan Transfer, interrompere dei balli lenti, ed entrare noi in calzamaglia, tristi, tristissimi, in calzamaglia e cominciare a cercare di attirare l’attenzione.
Allora, forse è stata un’esigenza, abbiamo preferito avere una nostra tana dove poter cominciare con “Il Gatto Blu”.
– Gino Astorina, attore, comico e conduttore affermato ama fare ridere la gente e ne ha fatto, come sappiamo, un lavoro. Ci racconti invece cosa riesce a strappare un sorriso o una risata a te?
Desidero confessarti una cosa.
Io mi diverto, perché quando vado a vedere un film, a vedere una qualsiasi performance artistica, da chi racconta una barzelletta a chi fa intrattenimento in generale, non sono prevenuto, e non essendo prevenuto non ho dei retaggi, non ho dei filtri che mi pongo in una maniera tale da dire “Vediamo se mi fa ridere” e mi abbandono, mi lascio trascinare e allora mi diverte.
Mi diverte tutto quello che mi sa di ingenuo, mi sa di non costruito, mi sa di non artefatto: Mi diverte da morire!
– Negli anni non sono state poche anche le tue incursioni nel cinema, sempre in pellicole molto amate dal pubblico e dal grande successo in sala. Cinema e teatro sono per te due mondi separati o in qualche modo comunicano e si completano a vicenda nella tua vita?
Dire che comunicano e si completano sarebbe una giusta chiusa, una bella frase da poter dire, ma in realtà sono delle cose completamente diverse.
Io sono stato fortunato, lo devo ammettere.
Sono stato molto fortunato perché ho avuto la possibilità di essere scelto da amici, come Ficarra e Picone, Nuzzo e Di Biase, o lo stesso Roberto Lipari, ed allora lì entra anche la complicità.
Conoscendo le varie potenzialità che si possono esprimere, mi chiedevano giusto quelle cose che sapevano che io potevo raggiungere, ed allora per me è stato sempre e facile.
Però se io ti dicessi ad esempio che non ho un’agenzia, che io non ho fino ad oggi, forse sbagliando, mai mandato un mio provino, tu magari non ci crederesti, ma ti giuro che è così.
Se mi chiama un amico, se mi chiama qualcuno che desidera che io faccia parte del progetto, sono ben felice, ma non mi sono mai proposto per un lavoro o perché interessato a fare cinema.
– Gigi Proietti diceva che “La comicità è una questione complessa” e che “Non basta mettere in scena una cosetta simpatica per guadagnarsi gli applausi”. È davvero così difficile fare ridere la gente? Qual’è il tuo segreto che ti ha reso Maestro in quest’arte?
Io penso di non essere assolutamente un Maestro. Ci sarà indubbiamente un’alchimia per far ridere le persone, però noi facciamo un lavoro che è osmotico. Se tu dai qualcosa, ricevi qualcosa, ed il pubblico è molto, ma molto, più intelligente di quello che uno magari si aspetta.
“Gli racconti questa barzelletta, racconti questa cosa, questa tecnica, sai poi arrivato ad un certo punto, comincia a ridere tu che il pubblico ride”… Non è assolutamente vero, non è così.
Il pubblico sa quando deve ridere, il pubblico riesce a prendere ogni sfumatura, ed un grande una volta mi ha detto: “Se riesci a fare ridere le persone in maniera normale, naturale, tranquilla, come se tu fossi al bar, come se fossi seduto in un salotto, quella è la cosa più bella. Se tu ti prepari la battuta, la dici, possibilmente ci sarà qualcuno che magari non l’afferra, non la prende al volo. E mi raccomando, se qualcuno non riesce a ridere ad una tua battuta, non la spiegare, perché offenderesti chi non l’ha capito ed il pubblico che l’ha capita.”.
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