09 Luglio 2019, 15:53
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Il caso di Carola Rackete e la mancata convalida del fermo. Decisione giusta o sbagliata? Risponde l’avvocato Paolo Grillo.
E’ trascorsa una settimana esatta dalla fine del primo round che ha visto tornare in libertà Carola Rackete, ormai diventata “la Capitana” per antonomasia e l’interesse per la vicenda che l’ha vista protagonista non accenna ad attenuarsi. Il tambureggiare dei supporters pro e contro la Sea Watch e le sue imprese salvifiche continua imperterrito, dimostrando ancora una volta, se mai ce ne fosse stato bisogno, che l’emergenza migranti divide le opinioni: anche la Chiesa, per bocca di Padre Bartolomeo Sorge ha fatto sentire la sua autorevole voce.
L’informazione su questo fenomeno – l’ingresso in acque italiane della Sea Watch e della sua comandante, nonostante il niet imposto dalle Autorità – ha inevitabilmente restituito delle immagini troppo sintetiche dell’accaduto, lasciando del tutto sullo sfondo la reale entità tecnico-giuridica dell’accaduto.
Alla fine dei conti, slogan a parte e al netto della retorica che sempre inevitabilmente accompagna vicende come quella di cui ci stiamo occupando, l’attenzione collettiva si è soffermata su un paio di scampoli della questione: la configurabilità, a carico di Carola Rackete, del reato di resistenza e violenza nei confronti di una nave da guerra italiana e la sussistenza di profili di responsabilità per il reato di resistenza a pubblico ufficiale, avendo ignorato l’alt impostole dalla Guardia di Finanza, fino ad urtare la motovedetta con lo scafo della Sea Watch. Sullo sfondo rimane, poi, un grande interrogativo: la Capitana era legittimata a fare ingresso nelle acque nazionali? Verrebbe da rispondere con un’ovvietà: le indagini sono appena iniziate, ci sarà un processo e poi si vedrà se le ipotesi di reato legittimamente elaborate dalla Procura di Agrigento troveranno riscontro in una pronuncia, altrettanto legittima, del locale Tribunale. Oppure se avrà successo la tesi difensiva – legittima esattamente nella stessa misura in cui lo è l’accusa – e Carola Rackete se ne andrà per la sua strada, libera e assolta da ogni addebito.
I lettori avranno notato l’insistenza sull’aggettivo legittimo, in tutte le sue declinazioni, e non è un caso. Non lo è perché il livello medio d’intensità raggiunto dalle polemiche, di qualunque colore e contenuto, ha sin da subito delegittimato ogni opposta interpretazione del fenomeno, con l’unico triste e prevedibile risultato di avere indebitamente sovraesposto – nel caso che ci occupa e nella specialissima fase precautelare di questo procedimento – il magistrato che ha dovuto decidere se l’arresto di Carola Rackete dovesse essere convalidato o meno, fino a trascendere nell’invettiva personale, e peggio. Eterna Italia.
In effetti, questo passaggio ai più è sfuggito: il Gip Vella non ha assolto la Capitana con una sentenza che entra nel merito dei fatti; non ha, insomma, escluso che su questo episodio possa celebrarsi un processo penale. La liberazione della comandante è stata, piuttosto, la logica conclusione di una decisione di non convalida della misura precautelare dell’arresto in flagranza di reato, eseguito dal personale della Guardia di Finanza di Lampedusa al termine di quella convulsa sequenza di avvenimenti.
Cerchiamo allora di comprendere il vero senso di questa particolarissima decisione – l’ordinanza di non convalida dell’arresto – e nel farlo, anche se le retoriche nazionali certamente storceranno il naso o resteranno deluse, occorre inforcare i freddi occhiali del giurista per soffermarsi sui dettagli.
Prima di ravvisare gli estremi, nella condotta di Carola Rackete, di una possibile responsabilità penale, occorre risolvere un problema di valutazione della sussistenza di un elemento oggettivo della fattispecie del reato di resistenza o violenza contro nave da guerra.
L’operazione interpretativa di cui stiamo parlando è condensabile in un semplice interrogativo: la motovedetta della Guardia di Finanza è una nave da guerra?
La risposta è “ni”.
La Corte Costituzionale, nell’ormai lontano anno 2000, ebbe a pronunciarsi sull’ammissibilità di un referendum volto ad abolire la natura militare del Corpo della Guardia di Finanza; il consesso all’epoca presieduto da Giuliano Vassalli affidò alla penna del redattore Guido Neppi Modona – due mostri sacri del diritto e della procedura penale – la decisione di inammissibiltà e, in quella circostanza, si specificò a chiare lettere che le unità navali della Guardia di Finanza sono a tutti gli effetti navi militari ai sensi della legge penale militare, tanto che battono bandiera da guerra e a loro danno si può configurare il reato di resistenza e violenza a nave da guerra quando operano fuori dalle acque territoriali o si trovano in porti privi di autorità consolare.
Quindi, a conti fatti, la decisione del Gip di Agrigento, sotto questo profilo, può considerarsi un esempio di automatismo giuridico derivante dal difetto di una sorta di condizione obiettiva di punibilità: essendo carente un presupposto oggettivo fondamentale – la presenza dell’imbarcazione militare in acque non territoriali – la decisione non poteva che essere quella effettivamente adottata. Comprendiamo la necessità, tutta politica s’intende, di rimarcare per opposte ragioni questo aspetto, ma – scientificamente parlando – la portata della questione è solo e spiccatamente tecnica.
Del resto, alla Capitana viene rimproverato anche il “semplice” delitto di resistenza a pubblico ufficiale, che a guardare bene sempre attraverso le lenti del diritto, sarebbe una specie di doppione del reato commesso ai danni della “nave da guerra” (anche se, dobbiamo riconoscerlo, giornalisticamente fa meno impressione). Su questo aspetto, la decisione di non convalidare l’arresto si poggia su una ragione tecnico-giuridica assai più semplice: una norma del codice di procedura penale pone il divieto di procedere all’arresto quando le circostanze del fatto rendono evidente che questo è stato compiuto nell’adempimento di un dovere o nell’esercizio di una facoltà legittima.
A questo punto, la domanda sorge spontanea: Carola Rackete ha adempiuto a un dovere o ha esercitato una facoltà tutelata dalla legge? Questo è certamente il versante più ripido della questione che va sotto il titolo “salvataggio in mare dei migranti”. Il tessuto normativo applicabile in contesti del genere è, infatti, alquanto intrecciato per il sovrapporsi di numerose fonti – lo ribadiamo, caso mai ve ne fosse necessità – tutte legittime ma gerarchicamente non allineate: a disciplinare il fenomeno vi sono, infatti, accordi internazionali e convenzioni ratificate dall’Italia, norme costituzionali che impongono al nostro Paese di conformarsi a quegli accordi e, dulcis in fundo, fonti nazionali di natura legislativa o regolamentare anche di nuovissimo conio (e che, naturalmente, non possono contrastare, nei loro contenuti, le norme gerarchicamente sovraordinate).
In linea del tutto generale, il sostrato normativo di rango costituzionale (o equiparato a questo in forza dei richiami che la stessa Costituzione prevede) muove nella direzione di rendere obbligatorio, per il comandante di una nave, il salvataggio di chiunque versi in condizioni di difficoltà, per condurlo in un porto sicuro nel quale procedere a prestare la prima assistenza. Anche la disciplina legislativa, con buona approssimazione, è orientata in questo senso, sebbene da ultimo si sia inteso rafforzare il contrasto all’immigrazione clandestina e richiamare, così, l’attenzione sovranazionale su questo delicato fenomeno che ci vede obtorto collo protagonisti. Le peculiarità del caso concreto, su cui l’autorità giudiziaria dovrà fare piena luce, hanno evidentemente giustificato il riconoscimento di un profilo scriminante nella condotta della Capitana, alla quale non può certo negarsi che nel caso di specie abbia dovuto anche fronteggiare una difficile situazione igienico-sanitaria a bordo della nave, tanto da non rendere anti-doveroso il suo comportamento.
Decisione giusta o sbagliata?
Non sfuggiamo alla domanda ma rispondiamo nell’unico modo in cui il giurista deve farlo: è una decisione legittima, perchè legittimo è, in uno Stato di diritto, che il magistrato interpreti un fatto storico allo scopo di verificare se quest’ultimo ricada o meno nel raggio d’azione di una norma incriminatrice.
E’ semmai l’invettiva personale a presentare più di un profilo problematico: quando si supera il limite della critica argomentativa per sconfinare nell’offesa gratuita, si riesce immancabilmente a rendere sbagliato anche il concetto più giusto.
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09 Luglio 2019, 15:53