26 Luglio 2019, 19:46
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Mia nonna – che di nome fa Ignazia – mi ha raccontato spesso, nel corso degli anni, quella storia. Di quella volta, cioè, che mio nonno – che di nome faceva Calogero – marinaio e armatore del “Salvatore padre” non esitò un attimo a tuffarsi e recuperare un tale, che di inciuria, cioè di soprannome, quei soprannomi che dalle nostre parti hanno radici profonde e vaghe, faceva, chissà perché, “Piddi piddi”. E mio nonno, quando prendevamo il discorso, confermava il racconto, ma a modo suo. Con poche, pochissime parole. Con uno sguardo azzurro, a metà tra il divertito e lo scocciato. Che era un po’ come dire: “Per poco non annegavo anch’io, ma non potevo certo lasciare che annegasse lui”. Mulinava la mano, in un gesto istantaneo, mio nonno, che era come se dicesse: “Mi ha fatto anche perdere del tempo, quella volta. E magari pure un po’ di soldi. Ma andava salvato, come fai a non salvarlo?”.
È bastato poco, per tornare a quei ricordi per chi, come chi vi scrive, è, di fatto, figlio di pescatori. Pescatori di Sciacca, un gioiello immobile di bellezza e rassegnazione, più Macondo che Acitrezza. È bastata la notizia di un altro pescatore come mio nonno, di Sciacca pure lui, che ha deciso di aiutare una cinquantina di migranti che stavano per affondare, salvarli da una fine tremenda.
Anche per questo, i pescatori li salvano. Perché non c’è pescatore che non abbia avvertito la paura del mare. E che sa bene che domani, facendo scongiuri e segni della Croce, l’aiuto potrebbe servire anche a lui. Perché il mare è tinto, dicono dalle mie parti: e la parola non ha un significato cromatico. Il mare è infido, è vita e morte. Lo sanno, i pescatori. E i figli. E, se permettete, pure i nipoti. Che avranno pure ascoltato, nella loro vita, il gracchiare di un baracchino, nelle notti di mare brutto. Quello strumento di comunicazione che dovrebbe diventare patrimonio dell’umanità, con le sue storie di gioia e disgrazia passate da un ricevitore all’altro: “Cambio, cambio. Chiudo, passo e chiudo”. Quel baracchino sul quale giocavamo, da bambini, intercettando le comunicazioni in lingua araba tra barche e case: c’era il Mediterraneo, in quella specie di social network del mare. C’era, cioè, la nostra civiltà. Quella che stiamo perdendo.
Per fortuna, però, c’è gente come Carlo Giarratano, come suo padre Gaspare, gente per la quale un figlio di pescatori può andare orgoglioso, e anche noi siciliani, i siciliani tutti. Roba da Nobel per la pace, se volessimo esagerare, o quantomeno di una benemerenza delle più alte istituzioni del nostro Paese, se vogliamo volare bassi.
Ma quando mai. Questo giornale dà voce al capitano (questo sì, lo è davvero), ed ecco sui social network piovere commenti agghiaccianti, ignoranti, violenti, beceri. Che attendiamo in calce anche a questo articolo e che già possiamo in larga misura prevedere: dentro ci sarà oenneggì, piddì, pidiota, portali a casa tua, Soros, buonista, buonista del ‘cavolo’. E mischieranno con la naturalezza del cretino, fatti di cronaca che non c’azzeccano niente, a costo di colossali figuracce, quasi a giustificare il fatto che se un “nero” compie un delitto va sterminata, anche lasciandola annegare, una intera civiltà.
La civiltà, questa sconosciuta. In tutti i sensi. Che poi, non si chiede nemmeno che questa gente abbia mai letto gli abbacinanti racconti di Camus, per capire chi siamo, da dove veniamo. Basterebbe solo accorgersi, ad esempio, che la nostra civiltà “cristiana” si fonda su un Dio fattosi carne in Medioriente, basterebbe ricordarsi che la Vergine Maria a cui ci s’affida rosari in mano, era nata un po’ distante da Bordighera, che San Paolo era turco e che Sant’Agostino, padre di quella Chiesa e di quella civiltà di cui tanti si riempiono la bocca, era, pensa un po’, persino africano. Ma africano del Nord, bontà sua.
E del resto, quelli lì, quelli dall’insulto pavloviano, dal concetto ridotto a rutto, sono i primi a essere presi per i fondelli da chi comanda. Da chi li usa, per crescere nei sondaggi. E che si guarda bene dal risolvere il problema dove andrebbe risolto: lì, tra i tavoli di una Europa colpevole e indifferente. Ma il problema oggi è più ampio, e preoccupante, e profondo come il mare. Finché di fronte a una barca che affonda penseremo all’Europa e non a un uomo che annega, avremo perso tutti. Non ci sarà scampo per nessuno di noi.
Scriveva Sciascia, parodiando un famoso passo del cristiano John Donne che quando in un paese la campana della giustizia suona a morto, non serve mandare mai a chiedere per chi suona, perché suona per tutti. Oggi, quel ragionamento andrebbe declinato sul concetto di umanità. Quando la campana dell’umanità suonerà a morto, lo farà per tutti, per tutti noi. Quando la soglia di ciò che è umano si abbasserà ancora, sempre di più, domani, quando gli ultimi torneremo a essere noi, noi che oggi ci sentiamo il nuovo Nord solo perché c’è gente più disperata di noi, anche per noi non ci sarà pietà. E questa non è morale, né etica. Questa è una indicazione pratica, concreta, che riguarda il futuro di noi tutti. Perché questo mondo è un immenso Mediterraneo. Dove tutti, prima o poi, potremmo avere bisogno dell’altro. Lo sa bene Carlo Giarratano, e prima ancora di apprenderlo lo sente nell’animo, è l’istinto di ogni marinaio, come ha spiegato al nostro giornale. Così come lo sapeva mio nonno. Che forse, oggi, di fronte all’ignoranza, alla violenza di certi commenti su Facebook, un po’ divertito e un po’ scocciato, farebbe mulinare quella mano, a voler dire: “Non so manco cosa sia Facebook, so solo che se c’è un uomo in mare, va salvato”.
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26 Luglio 2019, 19:46