02 Marzo 2011, 16:18
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Nella storia della fotografia fin dalla fine del XIX secolo il professionista del ritratto fotografico preferisce chiamare atelier il luogo dove svolge il suo lavoro. Il termine francese richiama il nome che davano i pittori ai propri studi e indica la sostanziale contiguità tra pittura e fotografia; infatti, un buon numero di artisti alla fine dell’Ottocento abbandonarono il pennello per passare alle lastre e alle sostanze chimiche. Il pittore-fotografo attraverso l’antracotipia, i processi alla gomma bicromata, alla gomma azotipica, agli inchiostri grassi, all’uso di fototipi plurimi, lo spoglio progressivo degli elementi dell’icona fino alla densità desiderata e il riporto delle polveri o l’uso degli oli, gli permetteva di creare delle fotografie con textures originalissime.
L’abilità e il costo in termini di preparazione professionale e tempo che queste tecniche richiedevano sono state un argomento a favore della tesi di coloro che ancora oggi sostengono l’impossibilità di tracciare un confine preciso tra fotografia e pittura.
Anche oggi la pittura e la fotografia sono mescolati e amalgamati in un gioco indecidibile tra reale e fittizio, tra verità e manipolazione, tra originale e copia, come nel caso di Daniela Longo. La costruzione della fotografia, quindi dell’IO fotografato, diventa più un fatto concettuale e artificiale che naturale: al dissolvimento dei valori assoluti della società contemporanea, i personaggi ritratti, non reagiscono con senso di smarrimento ma con volontà di ricostruzione, autodeterminazione, invenzione di sé, autorealizzazione e insieme senso della molteplicità, della disseminazione, della libertà che non è più origine del dissolvimento, ma motore, distributore delle differenze, perfino delle incongruenze e delle eterogeneità, che per questo contiene come parti di un insieme e rielabora costruendo nuovi riferimenti sociali diversi dai precedenti, ma non per questo peggiori.
Tutto ciò è inequivocabilmente scritto nel diario per immagini che Daniela Longo ci propone, esso è costituito da alcune fotografie in cui l’autore ha scelto di raccontare volti quotidiani del piccolo mondo globale, nella convinzione che talvolta le cose più semplici possono trasformarsi in immagini straordinarie. Rispecchiando una spontanea capacità di emozionarsi di fronte alle espressioni spontanee di saggezza, armonia, equilibrio e libertà che questi volti ispirano.
Il punto di partenza è la vita personale di ognuno (del fotografo, del fotografato, dello spettatore). La fotografia resta dunque il rapporto temporale tra un prima e un dopo, fare una fotografia è un modo di toccare qualcuno, è una carezza, è l’accettazione, il desiderio di cogliere la verità e di accettarla, senza cercare di farne una versione personale.
I personaggi, in queste fotografie, sembrano affrontare se stessi piuttosto che lo spazio che li circonda. Il loro mondo non è però quello dell’interiorità è anzi quello di un’esteriorità radicale e ineluttabile. La luce sembra anticipare i movimenti dei corpi e magnetizzarli nel loro spostamento.
Passando alla tecnica usata, essa coniuga la tecnica fotografica e la pittura: la base sono le fotografie, che l’autrice ha realizzato durante i suoi viaggi in giro per il mondo, che vengono scontornate, stampate su tela e dipinte. Il colore che viene utilizzato è mescolato con il bianco e nero e manipolato con l’elaborazione elettronica.
Concludendo: il lite motive che Daniela Longo ha seguito per realizzare questa mostra, a mio avviso, si può riassumere in questa frase di Barthes: «La Fotografia è l’avvento di me stesso come altro: un’astuta dissociazione della coscienza d’identità».
*Docente di Antropologia Visuale dell’Università di Palermo e direttore del museo internazionale delle marionette “Antonio Pasqualino”
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02 Marzo 2011, 16:18