22 Luglio 2019, 15:24
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PALERMO – Assolto anche in appello. Calogero Mannino non ha trattato con la mafia. Confermata l’assoluzione di primo grado dalla Corte di assise di appello presieduta da Adriana Piras, giudici a latere Maria Elena Gamberini e Riccardo Corleo. La formula è piena: “Per non avere commesso il fatto”.
“Siamo di fronte ad una sentenza di assoluzione motivata in modo non adeguato. Nei confronti dei coimputati i giudici della Corte d’assise hanno infatti accolto la tesi dell’accusa”, avevano detto i sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, prima di chiedere la condanna a nove anni.
“Dal 1991, tra processi mediatici e giudiziari, Calogero Mannino è in servizio permanente di imputato – avevano replicato gli avvocati Grazia Volo, Carlo Federico Grosso, Marcello Montalbano e Cristiano Bianchini – a combattere per dimostrare la propria innocenza. Questo processo comincia nel 2012, ci troviamo impelagati in questa vicenda per molti aspetti incomprensibile: un processo che sta in piedi, dal punto di vista del diritto, in maniera piuttosto incerta, debole e inconsistente”.
Anche Mannino era imputato per minaccia a corpo politico dello Stato. La sua posizione di era separata dagli altri per la scelta di essere giudicato con il rito abbreviato. La trattativa fra lo Stato e la mafia, secondo l’accusa, era partita proprio dall’ex ministro democristiano che temendo per la propria vita chiese aiuto agli ufficiali del Ros. Il politico democristiano, che aveva subito attentati e intimidazioni, era nel mirino di Cosa Nostra che aveva deciso di eliminarlo perché non aveva mantenuto il patto sporco con i boss.
Una ricostruzione che ha retto al vaglio della Corte di assise nel troncone principale del processo, quello chiuso con condanne pesantissime in primo grado: dodici anni di carcere gli ufficiali Mario Mori e Antonio Subranni; stessa pena per l’ex senatore Marcello Dell’Utri e Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina; otto anni all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno; ventotto al boss Leoluca Bagarella. Prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca. Assolto dall’accusa di falsa testimonianza l’ex ministro della Dc Nicola Mancino. Massimo Ciancimino, invece, è stato condannato a otto anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della Polizia Gianni de Gennaro.
La Trattativa sarebbe iniziata con l’intervento di Mannino, dunque. Così hanno i scritto nella motivazione i giudici del collegio presieduto da Alfredo Montalto: “Ben consapevole della vendetta che Cosa nostra poteva attuare anche nei suoi confronti per non essere riuscito a garantire l’esito del maxi processo a favore dei mafiosi non si rivolge a coloro che avrebbero potuto rafforzare la protezione”. Scelse di chiedere aiuto ad alcuni “amici dell’Ama e tra questi al generale Subranni” suo conterraneo.
Dopo l’eccidio di Capaci Riina non aveva ancora maturato l’idea del “ricatto” per ottenere “benefici”. La strage di Capaci era soltanto “l’esplosione della furia vendicatrice di Riina” contro il nemico numero uno. Il primo vero segnale provocato dall’intervento di Mannino e della Democrazia Cristiana sarebbe stata la sostituzione di Vincenzo Scotti al ministero dell’Interno. Avvenne a giugno, dopo la morte di Giovanni Falcone. Si metteva da parte un uomo che aveva combattuto duramente la mafia, per dare “un segnale di distensione e di alleggerimento delle misure di contrasto”.
Il verdetto di condanna nel troncone principale è arrivato dopo che Mannino in primo grado era stato assolto “per non avere commesso il fatto”. Il Gup Marina Petruzzella nelle motivazioni parlava di “mosaico accusatorio sulla complessa ipotesi della trattativa Stato-mafia e in cui vengono riagganciate a ritroso le condotte attribuite all’imputato Mannino, ma che “non assumono adeguata validità probatoria”.
Petruzzella li citava uno dopo l’altro: la paura di Calogero Mannino di essere ammazzato che lo spinse a chiedere aiuto ai carabinieri del Ros, l’indagine mafia-appalti, le storie nere della falange armata, la sostituzione di ministri “duri” con altri più “morbidi” e pronti ad assecondare il volere dei boss, le vicende del regime carcerario del 41 bis. Terminata la lista, ecco la picconata: “Questo elenco afferisce in buona parte a situazioni notorie o pacifiche, che quindi non avrebbero avuto bisogno di essere provate, ovvero probatoriamente poco significative, in quando ad esse i canoni della conoscenza e dell’esperienza possono attribuire varie ragionevoli interpretazioni, alternative e diverse da quelle unidirezionali, e comunque indimostrate, prescelte dal pm”.
Secondo il giudice, “elementi del contesto politico vengono caricati di valore dimostrativo… poi tutti questi elementi vengono considerati situazioni probatorie o di riscontro indiziario reciproco, in una sorta di suggestiva circolarità probatoria. Ma, si ripete, ciascuno dei fatti politici valorizzati dal pm può avere avuto cause diverse, dettate ad esempio dalle consuete logiche di appartenenza della macchina e della burocrazia partitica, dalla volontà di evitare la linea netta di contrarietà al 41 bis, ovvero dalla volontà di percorrere una linea meno coraggiosa di quella di Vincenzo Scotti, anche ispirata da scelte di bieco opportunismo politico, senza la necessità di un accordo siglato con una parte mafiosa”.
E anche qualora fosse stato provato – il giudice Petruzzella sosteneva il contrario – che “la condotta di Mannino avesse contributo alla minaccia al Governo”, non è stata trovata traccia alcuna del cosiddetto elemento psicologico del reato. E cioè “la coscienza e volontà del fatto criminoso e la volontà di concorrere con altri alla realizzazione del reato”. Ma è il reato stesso che frana leggendo le motivazione del giudice.
In un ulteriore passaggio della motivazione Petruzzella aggiungeva: “Di certo resta il fatto che Mori e De Donno, ufficiali del Ros, corpo dedicato alle investigazioni antimafia e alla ricerca dei più pericolosi latitanti, andarono a rivolgersi a Vito Ciancimino, conoscendo chi fosse e quali interessi rappresentasse, ed ebbero con lui un’interlocuzione che, relativamente a quanto può considerarsi accertato, ebbe come fine la risoluzione di quei problemi dì ordine pubblico e principalmente la cattura di Riina”.
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