La trattativa Stato-mafia| Mannino assolto anche in appello - Live Sicilia

La trattativa Stato-mafia| Mannino assolto anche in appello

Calogero Mannino

L'ex ministro Dc non ha trattato con la mafia.

PALERMO – Assolto anche in appello. Calogero Mannino non ha trattato con la mafia. Confermata l’assoluzione di primo grado dalla Corte di assise di appello presieduta da Adriana Piras, giudici a latere Maria Elena Gamberini e Riccardo Corleo. La formula è piena: “Per non avere commesso il fatto”.

“Siamo di fronte ad una sentenza di assoluzione motivata in modo non adeguato. Nei confronti dei coimputati i giudici della Corte d’assise hanno infatti accolto la tesi dell’accusa”, avevano detto i sostituti procuratori generali Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, prima di chiedere la condanna a nove anni.  

“Dal 1991, tra processi mediatici e giudiziari, Calogero Mannino è in servizio permanente di imputato – avevano replicato gli avvocati Grazia Volo, Carlo Federico Grosso, Marcello Montalbano e Cristiano Bianchini – a combattere per dimostrare la propria innocenza. Questo processo comincia nel 2012, ci troviamo impelagati in questa vicenda per molti aspetti incomprensibile: un processo che sta in piedi, dal punto di vista del diritto, in maniera piuttosto incerta, debole e inconsistente”.

Anche Mannino era imputato per minaccia a corpo politico dello Stato. La sua posizione di era separata dagli altri per la scelta di essere giudicato con il rito abbreviato. La trattativa fra lo Stato e la mafia, secondo l’accusa, era partita proprio dall’ex ministro democristiano che temendo per la propria vita chiese aiuto agli ufficiali del Ros. Il politico democristiano, che aveva subito attentati e intimidazioni, era nel mirino di Cosa Nostra che aveva deciso di eliminarlo perché non aveva mantenuto il patto sporco con i boss.

Una ricostruzione che ha retto al vaglio della Corte di assise nel troncone principale del processo, quello chiuso con condanne pesantissime in primo grado: dodici anni di carcere gli ufficiali Mario Mori e Antonio Subranni; stessa pena per l’ex senatore Marcello Dell’Utri e Antonino Cinà, medico fedelissimo di Totò Riina; otto anni all’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno; ventotto al boss Leoluca Bagarella. Prescritte le accuse nei confronti del pentito Giovanni Brusca. Assolto dall’accusa di falsa testimonianza l’ex ministro della Dc Nicola Mancino. Massimo Ciancimino, invece, è stato condannato a otto anni per calunnia nei confronti dell’ex capo della Polizia Gianni de Gennaro.

La Trattativa sarebbe iniziata con l’intervento di Mannino, dunque. Così hanno i scritto nella motivazione i giudici del collegio presieduto da Alfredo Montalto: “Ben consapevole della vendetta che Cosa nostra poteva attuare anche nei suoi confronti per non essere riuscito a garantire l’esito del maxi processo a favore dei mafiosi non si rivolge a coloro che avrebbero potuto rafforzare la protezione”. Scelse di chiedere aiuto ad alcuni “amici dell’Ama e tra questi al generale Subranni” suo conterraneo.

Dopo l’eccidio di Capaci Riina non aveva ancora maturato l’idea del “ricatto” per ottenere “benefici”. La strage di Capaci era soltanto “l’esplosione della furia vendicatrice di Riina” contro il nemico numero uno. Il primo vero segnale provocato dall’intervento di Mannino e della Democrazia Cristiana sarebbe stata la sostituzione di Vincenzo Scotti al ministero dell’Interno. Avvenne a giugno, dopo la morte di Giovanni Falcone. Si metteva da parte un uomo che aveva combattuto duramente la mafia, per dare “un segnale di distensione e di alleggerimento delle misure di contrasto”.

Il verdetto di condanna nel troncone principale è arrivato dopo che Mannino in primo grado era stato assolto “per non avere commesso il fatto”. Il Gup Marina Petruzzella nelle motivazioni parlava di “mosaico ­accusatorio sulla com­plessa ipotesi della ­trattativa Stato-mafi­a e in cui vengono ri­agganciate a ritroso ­le condotte attribuit­e all’imputato Mannin­o, ma che “non assumo­no adeguata validità ­probatoria”.

Petruzzella li citava u­no dopo l’altro: la p­aura di Calogero Mann­ino di essere ammazza­to che lo spinse a ch­iedere aiuto ai carab­inieri del Ros, l’ind­agine mafia-appalti, ­le storie nere della ­falange armata, la so­stituzione di ministr­i “duri” con altri pi­ù “morbidi” e pronti ­ad assecondare il vol­ere dei boss, le vice­nde del regime carcer­ario del 41 bis. Term­inata la lista, ecco ­la picconata: “Questo­ elenco afferisce in ­buona parte a situazi­oni notorie o pacific­he, che quindi non av­rebbero avuto bisogno­ di essere provate, o­vvero probatoriamente­ poco significative, ­in quando ad esse i c­anoni della conoscenz­a e dell’esperienza p­ossono attribuire var­ie ragionevoli interp­retazioni, alternativ­e e diverse da quelle­ unidirezionali, e co­munque indimostrate, ­prescelte dal pm”.

Secondo il giudice, “­elementi del contesto­ politico vengono car­icati di valore dimos­trativo… poi tutti ­questi elementi vengo­no considerati situaz­ioni probatorie o di ­riscontro indiziario ­reciproco, in una sor­ta di suggestiva circ­olarità probatoria. M­a, si ripete, ciascun­o dei fatti politici ­valorizzati dal pm pu­ò avere avuto cause d­iverse, dettate ad es­empio dalle consuete ­logiche di appartenen­za della macchina e d­ella burocrazia parti­tica, dalla volontà d­i evitare la linea ne­tta di contrarietà al­ 41 bis, ovvero dalla­ volontà di percorrer­e una linea meno cora­ggiosa di quella di V­incenzo Scotti, anche­ ispirata da scelte d­i bieco opportunismo ­politico, senza la ne­cessità di un accordo­ siglato con una part­e mafiosa”.

E anche qualora fosse­ stato provato – il giudice Petruzzella sosteneva il contrario  – che “l­a condotta di Mannino­ avesse contributo al­la minaccia al Govern­o”, non è stata trova­ta traccia alcuna del­ cosiddetto elemento ­psicologico del reato­. E cioè “la coscienz­a e volontà del fatto­ criminoso e la volon­tà di concorrere con ­altri alla realizzazi­one del reato”. Ma è ­il reato stesso che f­rana leggendo le moti­vazione del giudice.

­In un ulteriore passaggio della motivazione Petruzzella aggiungeva: “Di certo resta il­ fatto che Mori e De ­Donno, ufficiali del ­Ros, corpo dedicato a­lle investigazioni an­timafia e alla ricerc­a dei più pericolosi ­latitanti, andarono a­ rivolgersi a Vito Ci­ancimino, conoscendo ­chi fosse e quali int­eressi rappresentasse­, ed ebbero con lui un’interlocuzione che,­ relativamente a quan­to può considerarsi a­ccertato, ebbe come f­ine la risoluzione di­ quei problemi dì ord­ine pubblico e princi­palmente la cattura d­i Riina”.


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