Laggiù, nel buio di una cella | “Le voci che nessuno ascolta”

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06 Marzo 2016, 05:59

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PALERMO- “Quello che faccio in fondo è semplice. Ascolto la voce umana, laggiù, nella profondità del buio, dove è più difficile che qualcuno la raccolga”. Franco Chinnici, insegnante di religione e di teologia, è un uomo libero che sceglie di passare molte ore in carcere, a Palermo, tra Ucciardone e Pagliarelli. Con l’Asvope – l’Associazione volontariato penitenziario di cui è presidente – si occupa di prendere in braccio coloro che per tutti gli altri sono rifiuti, polvere da mettere sotto il tappeto, cose in ripostiglio, da dimenticare. La cella è l’icona stessa del senso di colpa di ognuno, ecco perché le si attribuiscono cecità e oscurità, piuttosto che chiarore e trasparenza.

“Abbiamo cominciato da molti anni, prima con esperienze singole che abbiamo messo insieme – dice Franco, il professore -. L’aspetto più importante è far riscoprire l’umanità a chi, magari, l’ha smarrita. Di recente, alcuni detenuti dell’Ucciardone hanno portato sulla scena Omero, Iliade e Odissea, grazie a un laboratorio teatrale. Non si può neanche immaginare la forza, la rabbia e le emozioni che hanno tirato fuori. Uno mi ha detto: ‘non ho mai saputo fino ad ora quanto fosse potente il teatro’”.
C’era il recluso di Catania nei panni generosi e nobili di Ettore, principe di Troia, sconfitto, caduto nella polvere, come le ombre che affollano un penitenziario. C’era chi interpretava Achille in siciliano, l’unico idioma conosciuto. E non è stata solo la rappresentazione. “Per giorni e giorni – racconta Chinnici – hanno provato, hanno discusso, hanno riscoperto una dimensione diversa”.

L’Asvope esiste ormai da sedici anni. Nell’opuscolo di rappresentanza, l’elenco dei servizi di volontariato che offre: pratiche burocratiche, collegamenti con parrocchie e patronati, la sistemazione della biblioteca, corsi di cultura generale, di sostegno scolastico e di lingua italiana per i migranti, i laboratori, lo sport, i colloqui psicologici, i contributi materiali tra guardaroba, occhiali e altro. Un’ampia attività che lascia addosso, oltre gli schermi di chi non passa mai il portone della colpa e della pena, una centrifuga di volti e di sguardi dal recinto.

Franco è impelagato in questa vischiosità di corpi e anime. “Ricordo un ragazzo rom che era dentro per omicidio. Ma non voleva uccidere nessuno, mentre stava rubando una macchina travolse il proprietario per disgrazia. Lui è uno di quelli che testimoniano quanto si possa cambiare, se uno lo vuole davvero. Ci siamo incontrati per anni. Ha mandato i suoi bambini a scuola e mi ha spiegato perché: ‘qui ho capito che senza l’istruzione si è destinati a rimanere schiavi’. Ricordo soprattutto un altro che mi è rimasto appiccicato al cuore”.

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Il protagonista di una storia di cronaca nera che fece scalpore a Palermo: un amico che ammazza il suo migliore amico, a colpi di sedia, probabilmente per gelosia. “La prima volta che lo vidi – racconta il professore Chinnici – era sedato e pareva uno zombie. Parlammo a lungo, mi ringraziò: ‘sei la prima persona umana …’. Lui – sono tutti ‘lui’ o ‘uno’, niente nomi nel girone infernale delle ombre – ha iniziato un percorso di vera redenzione, ha aiutato altri compagni di prigionia, prendendosene carico. Avrebbe desiderato intraprendere un’esperienza di volontariato. Il dolore che ha provocato è il suo cocente rimorso. Invano, ha cercato il perdono”.

E c’era quello che voleva iscriversi a Giurisprudenza per conseguire una laurea. E quello che leggeva romanzi russi, soprattutto ‘Delitto e castigo’, aiutandosi di notte con un lumino. E quello che intendeva pagare gli studi del figlio della sua vittima. Sguardi e volti tra i cinquecento ospiti dell’Ucciardone e i mille e passa del Pagliarelli. E quello che ottenne un permesso e venne accompagnato da Franco al bar per un espresso, senza catene: “Pareva un extraterrestre, non aveva più orientamento, aveva paura delle case come se fossero mostri pronti ad aggredirlo. Rideva e dava la mano a tutti, al barista che gli serviva il caffè, ai passanti. Il carcere consuma l’aria che respiri, ti toglie lo spazio e il tempo. L’effetto peggiore consiste nel perdere lo status di persona. Gli altri ti vedono, e tu stesso finisci per vederti, come un animale in gabbia. Quale tipo di rinascita è possibile se sei un vuoto a perdere?”.

Eppure, nel genocidio delle speranze, qualcuno talvolta riemerge. “Come quel detenuto che mi disse: ‘ti prometto di essere migliore’, non ho mai sentito parole più belle”. Perché si può essere sconfitti, ma non morti e sotterrati, non pugnalati da una pena e da una colpa che mai avranno fine.

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06 Marzo 2016, 05:59

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