20 Febbraio 2016, 18:42
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CATANIA – Operazione Vicerè: il commento della criminologa. L’imponente blitz che ha decapitato il vertice del clan Laudani consente di fare un’analisi su alcuni aspetti salienti che fotografano fenomeni che ritornano spesso nella vita delle “famiglie” mafiose. Thea Giacobbe, esperta in scienze criminologiche e penitenziarie, fa il punto su due elementi cardine: la presenza massiccia di persone che hanno scontato una condanna definitiva e appena fuori dal carcere tornano a delinquere e il ruolo apicale attribuito alle tre donne finite in manette. Sul primo aspetto c’è il ruolo rieducativo e di reinserimento sociale del carcere, che in alcuni casi scricchiola. “Purtroppo, esiste una grande differenza fra la realtà delle carceri e quello che in teoria si dovrebbe realizzare”, spiega Giacobbe. “Ciò si traduce in concreto nell’ineffettività degli strumenti per rieducare i detenuti. “Il sovraffollamento è diminuito grazie alle ultime riforme, ma la scarsità di fondi impedisce in molti casi di rimodernare le strutture e soprattutto di fornire occasioni reali di reinserimento dei detenuti, in particolare lavorativo”, argomenta la criminologa. “Se si parla di criminalità organizzata, le difficoltà aumentano in modo esponenziale: sradicare queste persone dal proprio contesto deviante è estremamente difficile, occorrerebbero politiche sociali molto più penetranti”.
C’è poi il ruolo delle tre donne, considerate dagli inquirenti reggenti del clan in alcune realtà della provincia o finanziatrici del gruppo: Concetta Scalisi, Maria Scuderi e Paola Torrisi. Una presenza, quella femminile, sempre più all’ordine del giorno a dispetto delle percentuali che vedono comunque un numero poco nutrito di donne che delinquono. Giacobbe parte da un excursus storico di tipo teorico. “Non esiste tuttora una spiegazione univoca. Lombroso riteneva solo le prostitute capaci di commettere un reato perché le altre donne erano considerate troppo poco intelligenti, inette, deboli, semplicemente inferiori. Si è anche pensato che la scarsa delittuosità femminile dipendesse da una socializzazione diversa rispetto a quella degli uomini che portava allora a conservare un ruolo di genere anche nel delitto (delitti meno efferati e ruoli secondari)”, argomenta l’esperta. “Certo, anche l’emancipazione ha giocato la sua carta: i fatti di oggi dimostrano che i ruoli delle donne nel delitto sono ben altri”, spiega Giacobbe. Il modello fortemente patriarcale rintracciabile nel dna della criminalità organizzata sta subendo delle trasformazioni o forse, più correttamente, si mantiene sotto diverse forme. “Casi di boss in gonnella ci sono già dagli anni Ottanta, ma certo la partecipazione femminile nelle organizzazioni mafiose si è evoluta”, dice Giacobbe. “Sono state da sempre le donne ad essere custodi del codice culturale mafioso. In assenza del padre, impegnato attivamente nell’organizzazione, o latitante, o detenuto, è la madre a trasmettere il modello maschile, ad incoraggiare alla vendetta, a stringere alleanze matrimoniali, ad incalzare a tutelare l’onore”, rileva l’esperta. Una condizione che cambia al mutare degli “affari” dei clan o degli equilibri interni alle cosche, specie quando i vertici sono decapitati dagli arresti e tocca alle donne tenere le redini della famiglia. “Oggi sono corrieri di droga, intermediatrici finanziare o sostitute di boss latitanti o detenuti. Due sono stati i mutamenti che hanno scandito il passaggio da un ruolo all’altro”. “L’emancipazione della donna da esseri invisibili a protagoniste e l’aumento di capitali che le vede coinvolte, soprattutto, in settori economici e finanziari dove è assente la violenza fisica”.
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20 Febbraio 2016, 18:42